martedì 25 giugno 2013
domenica 23 giugno 2013
Sono nato il 23, a primavera.
Mi ricordo il cielo di marzo. E quello di aprile.
Grigio, denso; anche dentro di me. Mi ricordo le nuvole, senza mai averle osservate sul serio. Grigio negli occhi.
La sensazione di una primavera che non arriva da sola, che ha bisogno di essere realizzata, coltivata. Una primavera quasi ipotetica, come un'utopia.
Mi ricordo quando, sotto quel cielo irreale dei primi giorni di aprile, chiesi aiuto alla terra, che grigia, argilla, chiedeva la forza dell'aratro dentro le mia braccia gracili. Ma non poteva capire, se non la chiamavo forte; più forte.
E con la rabbia, con l'unica mia vita possibile che scorreva a gocce dalla pelle, sporca d'inganni e ripulita col fango, andavo, nelle sere di quel ripetuto novembre, a piantare il seme, lottando. Con la madre terra, come quando fai l'amore e... non ci pensi.
La terra ci contiene tutti: densi o liquidi.
Seminare il cambiamento di stagione, della propria esistenza. Seminare la fiducia nella vita, che procede, se è bagnata, pure nell'argilla o nel deserto. E non essere ginestra, per dio. Ma prendere il fiore ubriaco, sbandato di acqua e di sole, e farne ragione di occhi da inventare. Nuovi.
Non la ginestra, per carità, quale grazia sarebbe essere deserto. Sono umido ivece; sono zuppo e fin troppo compatto; e ora risoluto a far nascere giallo il colore della bandiera di rivolta.
Nacqui il giorno 23 - l'estate umana appena sedutasi oltre il recinto - come immagino possa nascere un fiore che sa solo d'esser fiore: non il migliore, non il meritevole, non il competitore; non l'ospite (schiavo) d'un giardino. Piuttosto il figlio di una natura libera e autodeterminata. Casuale e logica allo stesso tempo.
Ma ho sperimentato che dal momento della nascita ogni nostro atto è di prepotenza; anche innoqua, anche innocente. Ed è forse ancora la prepotenza di un riscatto dal grigio e la volontà di un'esplosione giallo-terra-simbolo umano che mi ha spinto a coltivare, con dedizione vera, una direzione opposta all'amore chiamato in causa e offeso dalla privazione nutritiva; di una terra allontanata, di una semplicità offuscata.
E 25 sono gli anni del fiore che zappa la terra per piantare altri fiori, come se non gli bastasse. Un fiore senza dimensioni comprensibili. Un fiore che sfugge spesso alla terra. Un fiore di quelli che non si raccontano; nemmeno fiore di campo.
E mi ricordo parole che non servivano, dolori che rendevano piccola questa corolla di fiducia e di speranza.
Come non esiste il fiore dentro la scatola, strappato alla terra, ornamento di un nulla così sofisticato da sembrare tutto, così non esiste verità presso chi ruba i colori fingendo di liberarli.
Adesso non ci sono ladri; solo primaverili insignificanti comparse dentro al recinto, e tutto il testo fuori. Da me.
Non so più cose sto dicendo e m'è venuto sonno; ma questi sono i miei girasoli.
Grigio, denso; anche dentro di me. Mi ricordo le nuvole, senza mai averle osservate sul serio. Grigio negli occhi.
La sensazione di una primavera che non arriva da sola, che ha bisogno di essere realizzata, coltivata. Una primavera quasi ipotetica, come un'utopia.
Mi ricordo quando, sotto quel cielo irreale dei primi giorni di aprile, chiesi aiuto alla terra, che grigia, argilla, chiedeva la forza dell'aratro dentro le mia braccia gracili. Ma non poteva capire, se non la chiamavo forte; più forte.
E con la rabbia, con l'unica mia vita possibile che scorreva a gocce dalla pelle, sporca d'inganni e ripulita col fango, andavo, nelle sere di quel ripetuto novembre, a piantare il seme, lottando. Con la madre terra, come quando fai l'amore e... non ci pensi.
La terra ci contiene tutti: densi o liquidi.
Seminare il cambiamento di stagione, della propria esistenza. Seminare la fiducia nella vita, che procede, se è bagnata, pure nell'argilla o nel deserto. E non essere ginestra, per dio. Ma prendere il fiore ubriaco, sbandato di acqua e di sole, e farne ragione di occhi da inventare. Nuovi.
Non la ginestra, per carità, quale grazia sarebbe essere deserto. Sono umido ivece; sono zuppo e fin troppo compatto; e ora risoluto a far nascere giallo il colore della bandiera di rivolta.
Nacqui il giorno 23 - l'estate umana appena sedutasi oltre il recinto - come immagino possa nascere un fiore che sa solo d'esser fiore: non il migliore, non il meritevole, non il competitore; non l'ospite (schiavo) d'un giardino. Piuttosto il figlio di una natura libera e autodeterminata. Casuale e logica allo stesso tempo.
Ma ho sperimentato che dal momento della nascita ogni nostro atto è di prepotenza; anche innoqua, anche innocente. Ed è forse ancora la prepotenza di un riscatto dal grigio e la volontà di un'esplosione giallo-terra-simbolo umano che mi ha spinto a coltivare, con dedizione vera, una direzione opposta all'amore chiamato in causa e offeso dalla privazione nutritiva; di una terra allontanata, di una semplicità offuscata.
E 25 sono gli anni del fiore che zappa la terra per piantare altri fiori, come se non gli bastasse. Un fiore senza dimensioni comprensibili. Un fiore che sfugge spesso alla terra. Un fiore di quelli che non si raccontano; nemmeno fiore di campo.
E mi ricordo parole che non servivano, dolori che rendevano piccola questa corolla di fiducia e di speranza.
Come non esiste il fiore dentro la scatola, strappato alla terra, ornamento di un nulla così sofisticato da sembrare tutto, così non esiste verità presso chi ruba i colori fingendo di liberarli.
Adesso non ci sono ladri; solo primaverili insignificanti comparse dentro al recinto, e tutto il testo fuori. Da me.
Non so più cose sto dicendo e m'è venuto sonno; ma questi sono i miei girasoli.
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