Cronaca semiseria di una serata di Teatro a Patti.
Venerdì 30 aprile alle 21 e 30, nell’Auditorium del Seminario Vescovile è andato in scena uno spettacolo dal titolo Porta Chiusa di Jean Paul Sartre. La sala si è riempita in buona parte (circa 180 persone), il che considerando il nome dell’autore è un risultato importante. Infatti mi pare che questo testo o comunque un testo di questo genere non sia mai stato messo in scena, se non forse a Tindari, qualche anno fa. Qualcuno potrebbe pensare: ci sarà anche un motivo. Forse è un testo troppo difficile o troppo astruso per il pubblico pattese. Forse.
Ma andiamo con ordine. La prima cosa che devo dirvi è che la responsabilità di questa scelta è mia e la rivendico interamente, con convinzione. Faccio parte della Compagnia Teatrale “Santina Porcino” in qualità di regista, e quando sei mesi fa ho proposto agli altri componenti del gruppo di fare questa esperienza la prima domanda che ci siamo fatti è stata: ma al pubblico di Patti piacerà questo Sartre? Dubbio legittimo, mi pare. Di questo tuttavia dirò dopo. Adesso se mi permettete vorrei ripercorrere la serata. La sala è accogliente, la gente arriva in orario , lo spettacolo sta per iniziare. C’è una bella atmosfera, le persone sembrano curiose, pare che abbiano voglia di ascoltare e vedere qualcosa di nuovo, o comunque di diverso. Un filo di tensione, nell’attesa, ma quello non guasta mai. Si spengono le luci in sala. Si accendono i fari sul palco. Qualche secondo dopo l’inizio, è subito chiaro che si è creata la giusta intesa col pubblico. L’attenzione è totale. Un silenzio carico di voglia di partecipare, di entrare in contatto con gli attori sulla scena, di cogliere lo spirito del testo. Sembra quasi di doversi ricredere sui dubbi che avevamo avuto sei mesi prima. Sembra quasi che la gente sia rapita, concentrata, che tutti siano partecipi e immersi in questo testo difficile certo, ma anche meraviglioso, profondo e tremendamente attuale. E si va avanti così per un’ora buona. Certo...qualcuno si distrae per qualche attimo. Ma va bene, ci può stare.
Dopotutto è sempre “Sartre, il filosofo”, “Sartre ,il pesante”, un nome che evoca facce lunghe e espressioni di sconcerto, come quelle che uno pseudo intellettuale pattese aveva impresse sul suo volto quando gli avevo detto che facevamo “Sartre”. Mi disse: “Sartre? Il produttore di mattoni?” Ma va bene, ci può stare.
Non a tutti piacciono le stesse cose e non tutti sanno di cosa parlano. Comunque, torniamo alla serata. A circa venti minuti dalla fine comincio a percepire delle voci indistinte e siccome dal fondo della sala dove mi trovavo per regolare luci e musiche non capivo bene, mi alzo in piedi e mi accorgo che ci sono due spettatori impegnatissimi a commentare lo spettacolo, non dico come fossero al cinema, ma addirittura a casa loro. Tranquilli, come se fosse la cosa più normale del mondo. Ma va bene, ci può stare.
Non tutti hanno l’abitudine di andare a teatro e forse qualcuno non sa che i dialoghi e le scene dovrebbero svolgersi sul palco anziché in platea. E poi sempre quel qualcuno potrebbe dire che siamo a Patti. Non ti puoi aspettare chissà quale pubblico, d’altra parte quanti anni sono che nel nostro paese non c’è una stagione teatrale che non sia quella estiva di Tindari, dove comunque si vede sempre poca gente e sempre gli stessi, belli, familiari, volti. Ma ritorniamo ai due simpatici spettatori. Sto per intervenire quando vedo del movimento dall’altra parte della sala: tre facce che si muovono instancabilmente alla disperata ricerca di qualcosa o di qualcuno. Penso: si sarà perso un bambino, magari do uno sguardo in giro anche io prima di tornare al banco regia. Sto per muovermi alla ricerca del bambino perduto quando mi accorgo che i tre non hanno l’aria preoccupata o nervosa. Anzi sono sereni e rilassati. Continuano però a guardarsi in giro e poi silenziosamente a scambiarsi occhiate d’intesa e risatine soffocate. Li seguo incuriosito ancora per un attimo, mentre continuano nel loro lavoro incessante e spassoso. Allora, finalmente capisco: non gliene frega molto di quello che avviene in scena, sono più interessati alla gente che sta seduta in platea. Ma va bene, ci può stare.
Non è detto che la platea non riservi uno spettacolo più piacevole e divertente di quello che mettiamo in scena noi. E poi hanno pagato. E il pubblico che paga ha sempre ragione. E dopotutto la loro è un’attività silenziosa che non disturba nessuno. Certo mi chiedo: ma perché sono venuti? E questo, devo confessarlo resta tuttora un mistero per me. A questo punto giro i tacchi deciso a tornarmene al mio posto a seguire i miei compagni d’avventura, ma nel buio della sala vedo un lampo bianco, una macchia saettante che oscilla, scompare a momenti, per rispuntare improvvisa qualche attimo dopo. Metto bene a fuoco: si...è un sorriso. Mi volto verso la scena : Il dramma è al suo punto più alto, le urla degli attori risuonano per tutta la sala, e questo tizio ride. Anzi si sta sganasciando. Ma va bene, ci può stare.
Anche lui, come i tre di prima non emette suono, cerca di trattenersi, soffre nel tentativo di soffocare una risata che altrimenti scoppierebbe fragorosa come un tuono. A fine spettacolo lo vedrò allontanarsi con le mascelle ancora doloranti e lo sguardo confuso. Sempre alla fine incontrerò i tre guardoni che mi faranno dei complimenti esagerati e mi copriranno di lodi: “Bello, bellissimo, mi è piaciuto tantissimo!”. Sarò tentato di chiedergli: “Perché? Ma cosa ti è piaciuto in particolare?” Ma non vorrei mai che si spalancasse l’abisso dentro le loro menti e allora rinuncerò. Incontrerò anche lo pseudo intellettuale pattese che mi farà una di quelle sue facce ambigue e misteriose che nascondono il nulla dietro : “Mi ha fatto riflettere...ci devo pensare...” Provaci, gli vorrei dire. Ma non lo farò. Poi altre persone, amici, parenti. Nei giorni seguenti qualcuno mi fermerà facendomi i complimenti, altri cambieranno strada per non farmeli. Un tizio verrà a dirmi con l’aria di uno che gode. “Ma mi è sembrato un po’ moscio l’applauso alla fine…” Ma anche questo va bene, ci può stare.
Da che mondo è mondo esistono quelli che vengono a teatro per cogliere solo gli aspetti negativi. Mi fanno tenerezza, poverini. Lo fisserò, gli sorriderò e ancora una volta non dirò niente. Poi, poco prima di uscire, quando la sala sarà ormai quasi vuota, uno spettatore solitario si avvicinerà e timidamente dirà: “Carino...certo non è il mio genere...Lo potevate fare San Giovanni decollato !”
Questo non va bene. Non ci può stare.
Accetto tutto, le critiche, la gente che parla, la gente che dorme, che ride, che spia gli altri durante lo spettacolo, che si alza e se ne va, i fischi perfino, ci può stare tutto. Ma San Giovanni decollato, no.
Intendiamoci, non ho niente contro questi testi e contro questo tipo di teatro, anzi l’ho pure messo in scena un testo di Martoglio, una volta. Mi diverto quando vado a vederli. Ma non ce la faccio a sentire uno che mi chiede per l’ennesima volta San Giovanni decollato. Ancora. Dopo vent’anni di Martoglio, di commedie divertenti anche se un po’ leggere, di variazioni sul tema, vorrei che la gente avesse voglia di qualcosa di diverso, di nuovo, di stimolante. Per una volta che facciamo Sarte, non ti lamentare, penso. Ma forse mi illudo... Poi mi viene in testa che è anche normale chiedere solo quello a cui si è abituati. Se per vent’anni ti dicono che il teatro è solo San Giovanni decollato e L’eredità dello zio buonanima, tu ci credi. Se per vent’anni ti abitui a parlare a teatro come se fossi davanti alla televisione, tu pensi che sia normale. Se per vent’anni l’assenza totale di qualsiasi politica culturale nel nostro paese ha prodotto questo, non ci dobbiamo meravigliare. Ci rispondono che a Tindari si fa il Teatro, che lì ci sono spettacoli validi. Forse è vero, ma chi li vede? Certamente non il fan di San Giovanni decollato. E molti altri con lui. Già...Lascerò perdere come faccio spesso, come tanti di noi fanno continuamente, tanto: “Cosa vuoi cambiare? Sempre a Patti siamo...Rassegnati.” Come se Patti fosse un posto dimenticato da Dio e dalla cultura, come se non avesse il passato che ha, come se non ci fosse più niente da fare, come se non ci volesse il rispetto per il pubblico, che in grandissima parte è intelligente e curioso, come se l’unica cosa rimasta fosse andarsene e lasciare che tutto continui così, se non peggio. Vabbè…
Scusate lo sfogo. Finisco il mio racconto. Torniamo al tizio con la risata da iena e alle sue convulsioni. È ancora lì che si torce tutto, viola in volto. Poi si fa forza, si calma e si tranquillizza, forse solo momentaneamente. Mi soffermo su di lui per qualche attimo, poi alzo lo sguardo sul pubblico che comunque continua a seguire lo spettacolo e vedo dei ragazzi sui diciotto, sono un gruppetto, seduti tutti vicini. Mi bloccano i loro occhi. Grandi e spalancati. Fissi sulla scena. Hanno un’espressione che è difficile definire e non ci voglio nemmeno provare. Risulterei retorico o melenso. So solo che non staccano lo sguardo dagli attori neanche per un istante e neanche io finirei mai di guardarli, i ragazzi dico, mi fanno sentire bene, mi fanno ricordare perché faccio questo lavoro. Mi viene voglia di fargli una foto e di farla vedere ai miei amici che sono lì sul palco. Ecco come vi guardavano questi, direi. Ma non lo faccio, mi do una mossa, devo fare un cambio luci fra qualche attimo e stavolta vado al mio posto dove resto fino alla fine. Il buio in scena dopo l’ultima battuta è improvviso e brusco. Gli applausi non partono immediatamente, c’è un po’ di sconcerto, di indecisione... Qualcuno si chiede se è davvero finito, altri applaudono convinti. Salgo sul palco, ringrazio il pubblico che ci sostiene e senza il quale il “Teatro”non esiste, il rettore del Seminario che ci ha messo a disposizione l’auditorium, e il sipario si chiude. La gente continua ad applaudire, ancora per poco, poi smette. Ed è un applauso strano, che probabilmente va interpretato, che ci farà discutere tutta la sera e anche il giorno dopo. Sarà piaciuto “Sartre il filosofo”, “Sartre il pesante”? Saremo piaciuti noi? E a chi ? Alle solite, belle, familiari facce che vediamo ogni estate a Tindari , o anche ad altri? A tutti, forse? Forse no. Forse non è compito nostro cercare di capire, forse dobbiamo aspettare. Forse il nostro compito è semplicemente fare lo spettacolo, fare Teatro. Anche qui, a Patti. Anche con “Sartre, il produttore di mattoni”. Sarà servito a qualcosa questo spettacolo? Sarà stato utile alla Comunità Pattese metterlo in scena? Non sono tanto bravo a dare risposte e probabilmente mi piace di più fare domande. Ma se devo ricordare un’immagine di quella sera sono gli occhi e i volti di quei ragazzi. Mi sento di lavorare sopratutto per loro. E per tutti quelli che venendo a vedere gli spettacoli, ci permettono di continuare. Mi pare che tutto abbia più senso così. Mi pare che loro non abbiano voglia di lasciar perdere, di rassegnarsi, di accettare tutto com’è perché ormai non c’è più niente da fare. E sono convinto che non sono i soli. C’è tanta gente che vorrebbe vivere in un paese diverso.
E allora mi decido a parlare, a scrivere questo pezzo, a sperare di aprire un dibattito.
Lo dico a tutti: non possiamo più restare in silenzio.
E questo si che va bene. Ci deve stare.
Stefano Molica
Regista e pattese
Non vi nego che per questo blog è motivo di grande orgoglio il poter pubblicare questa riflessione dell'amico Stefano. E' un motivo di orgoglio e di pura gioa perché questo è un blog "fastidioso", che crea polemiche, che espone tesi o fa domande scomode: un blog non da tutti. Il fatto che l'articolo in questione sia stato mandato proprio a noi, racconta del coraggio di un caro amico e di come questo amico si sia appassionato e fidato di un mondo - quello del dibattito, quello della ricerca della verità, del confronto - che anche grazie a questo blog si sta cominciando (o ricominciando) a presentare ai nostri occhi. Come è nostra consuetudine pubblichiamo senza censure le parole di tutte quelle persone che hanno un cuore sincero, una moralità elevata e fanno la loro parte nella società senza doppi fini. Pubblichiamo la voglia di capire, l'umiltà del domandarsi...e la convinzione del dover fare bene. Pubblichiamo tutto ciò che può servire...per fare meglio. Grazie Stefano.
S.R.