Un tempo mi avrebbe entusiasmato l'elezione di un sindaco di
Rifondazione Comunista in Sicilia... com'è accaduto a Palagonia
(CT). Oggi, invece, penso che serva a poco - rispetto ad un disegno di reale cambiamento - ed assuma un valore differente da quello che è avvertito: è utile a svelare il
malcontento della gente ed a sfatare il mito che la politica sia solo un affare per i moderati e gli pseudo-riformisti; è indice del disorientamento e della lesione del sistema. Ma ponendo la stessa
rifondazione comunista quale forza moderata e conservatrice (quantomeno perché è
un partito parlamentarista e, pure predicandone una ipotetica forma
"radicale", riformista), neppure quella che appare come una "rivoluzione", ed è chiacchierata nei dibattiti politici di sistema quale vittoria radicale, potrà mai esserlo davvero.
Bene... la politica oggi non si decide, realmente, a livello dello
Stato e delle istituzioni - anzi, potremmo dire che nelle istituzioni
si "sdecide", vista la tendenza a ridurre la legislazione
sociale - ma viene stabilita da qualcosa di altro. Il mercato
capitalistico è una prima risposta, ma decisamente incompleta [e dovremmo
approfondire]. In sostanza però possiamo notare e sentire un insieme di
“forze” che ai nostri giorni inibiscono l'azione politica tradizionale ed
impediscono alla Decisione di generarsi nei "luoghi" della
politica fin'ora riconosciuti... come i Consigli e le giunte comunali,
le assemblee regionali ma anche i parlamenti nazionali e i governi. E
nemmeno le istituzioni politiche sovranazionali svolgono il ruolo di "decisori"
delle politiche nel senso moderno del termine.
Eccoci: partiti che vivono incongruenze ideologiche (chi da decenni, come i partiti comunisti; chi da meno tempo come i movimenti populisti); voglia di cambiamento e voglia di politica; e... incapacità a coprendere cos'è e dove si trova la politica oggi.
Viviamo nel tempo in cui la letteratura sociologica e politologica invita a rimettere in discussione tutte le categorie: dall'identità, alla comunità, alla cittadinanza, ai luoghi, allo spazio, passando per lo Stato ed il mercato. Tutte queste parole, che sottendono costruzioni ben precise della modernità, diventano sempre meno adatte a raccontare il presente. Evidentemente, se è ipotizzabile che diventi inutile parlare di identità [Bauman, 2004] poiché sono molteplici la variazioni che un individuo, un gruppo, un fenomeno o un oggetto subiscono durante la loro esistenza nell'età dei consumi, potremmo arrivare persino a postulare, nel nostro presente, forme della politica decisamente innovative... fatte di "strumenti" ancora non codificati. E certamente siamo invitati ad aprire gli occhi ancora di più, fino alla "rottura dei limiti di compatibilità di sistema" - espressione usata dal Melucci per spiegare lo "statu nascendi" dei movimenti che qui ampliamo fino alle estreme conseguenze - e quasi come nella riedizione dell'incipit di un celebre cortometraggio di Luis Buñuel e Salvador Dalì.
Affermare che stiamo vivendo una fase molto matura della
cosiddetta "globalizzazione" è, dunque, la chiave di volta di tutto
il discorso. Come farà il “rivoluzionario” sindaco di Palagonia a
cambiare le sorti di quella che ormai non è più nemmeno una
"comunità" in senso tradizionale - nell'era di internet,
dell'abbattimento dei confini e delle distanze, nel tempo della
libertà di circolazione e del graduale mescolamento delle culture - e mentre il lavoro stesso (la piaga più grave oggi avvertita) ha
cambiato il suo valore nel quadro della regolazione sociale e, per
altro, è determinato da leggi molto più grandi delle nostre
Costituzioni e della nostra buona volontà di
creare “nuovi posti di lavoro”? Come si creano i posti di lavoro,
se, per altro, non sfuggendo all'ordine legale, non viene ripudiato
il capitalismo? E l'opposizione alle tasse.... la si gestisce solo come un fenomeno di ribellione agli abusi di gruppi ai quali manca, d'improvviso, un riconoscimento? E
poi... basterà riempirsi la bocca di slogan sui “beni comuni” e
far vincere le elezioni ai paladini di questi ultimi... a rendere
questi beni davvero comuni? Esistono, è vero, pratiche di buona
politica; o meglio esistono pratiche buone di “alleggerimento”
rispetto alla società capitalistica. Ma, se ci si pensa bene, si
tratta di fenomeni ingannevoli: da un lato pongono in essere
politiche apparentemente oculate indirizzate verso il risparmio, la
fine della corruzione, il taglio dei privilegi della classe
dirigente; dall'altro proclamano gli ideali di bene comune con
formule astratte e spacciano il riformismo per la rivoluzione. Ci
sarebbe da dire che i privilegi e la corruzione sono esistiti ed
esistono per una qualche ragione, ed hanno avuto conseguenze che
nessuno accetta di riconoscere come “positive”, ma che, nel senso
comune, lo sono. Per cui togliendo la stampella (se è una di quelle
importanti) bisognerà star attenti che il malato non rovini
miseramente per terra; vale a dire chiedersi se affidare alla
legalità, con la morale della meritocrazia, anche gli ultimi
territori liberi... non sia peggio che andar di notte! In termini
ancora più spiccioli: lo Stato, la legalità odierna, possono oggi
rappresentare la via di uscita dai problemi delle nostre società?
Oppure proprio lo Stato e la legalità divengono irriconoscibili, in
quanto promotori di interessi che si trovano in opposizione agli
ideali delle avanguardie, ed alle spinte che, in qualche modo, sono
espresse dal popolo? Staremmo parlando, in tal caso, dello
sganciamento della “legalità” dalla “legittimità”
prevalente, dove la legalità esprime il disegno di una società
capitalista e la legittimità prevede l'avversione a questo disegno
e, come antidoto, l'eversione.
Insomma potrei continuare per ore... ma il punto è stato
centrato: come si fa a mutare una legalità (che adotta
inevitabilmente dei dogmi, dei valori assoluti) attraverso la
legalità? E come procedere quando, addirittura, essa non è più
strettamente collegata alle dinamiche dell'ormai ex stato-nazione?
Sebastian Recupero
Sebastian Recupero