domenica 29 dicembre 2013

Buone feste

"Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno. Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date. Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E sono diventati cosí invadenti e cosí fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Cosí la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa la film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante. Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca". 

Antonio Gramsci
1 Gennaio 1916, l’Avanti!


Che questo pensiero gramsciano, come tanti altri, sia ormai consolidato, entrato nella coscienza di molti, o forse di tutti, non c'è dubbio. Quello che continua a farmi riflettere è la nostra gioiosa finzione, la nostra insolente prodigalità, la nostra rassegnazione. Anzi, forse quello che diventa preoccupante è la nostra assoluta partecipazione ai riti antichi con un'inedita volontà di trasformarli e piegarli in ciò che  noi crediamo sia il nostro vantaggio. "Si, capodanno non significa un cazzo, ma noi facciamo festa perché è un'occasione come un'altra in cui ci sono potenziali situazioni di divertimento"- che significa sempre bere e/o scopare -  "Che ci frega, noi fottiamo il sistema così: festeggiando e stando assieme".
E si, la condizione perenne dell'affermazione di vita umana nel 2013/2014 è la festa. Ed oggi è sempre festa, ogni giorno c'è una potenziale festa. Sembra davvero che non sia rimasto altro. Assomigliamo a dei lupi famelici costantemente in cerca di una preda notturna; si perché poi le cose migliori le teniamo sempre per la notte. Ammazziamo le nostre ore di buio oscurandoci ancora di più la vista. Festeggiamo contro questo mondo di merda, non rendendoci conto che il mondo di merda è fatto da noi. 
No, adesso non voglio focalizzarmi sui consumi (non se ne può più di questo mio costante richiamo, per non dire scassamento di cazzo); non verrò a menarvela, inutilmente, sul fatto che mentre noi ci convinciamo di essere felici perché ci sbronziamo e ascoltiamo i concerti rock o di qualche altra musica gioviale, su di noi e sulla nostra esistenza marcia il capitalismo; no, per carità. Vi dirò soltanto che come minimo siamo persone che non hanno le palle; che non sono minimamente interessate a cambiare le cose, se non nei nostri bei proclami ideali e dei finti afflati rivoluzionari. E questo perché non sappiamo dove cazzo andare. Quindi preferiamo perderci dentro il tutto, credendo sia un modo per avere un'esistenza dignitosa, che certamente non ci può essere data dalla privazione. Ci giustifichiamo come si può.

Dalle feste comandate a cui si riferiva Gramsci siamo passati alle feste auto-comandate:  e non mi sembra un grande traguardo. 

Un attimo forse abbiamo pensato che in questa nostra periferia dell'impero ormai il capitalismo si gioca sui nostri vizi, sui nostri ipotetici voli libertari, sulle nostre cirrosi epatiche e sui nostri tumori? Cioè, voglio dire, il divertimento è divenuto un servizio, un servizio fondamentale della società capitalistica. Noi ci vendiamo, siamo venduti e vendiamo divertimento.
Io non riesco a capire, la mia testa non è buona.
Non riesco a capire quando sarà finito il tempo della festa, del sollazzo, dell'individualismo becero e venduto che, fatti due conti, non ci offre affatto questo grandissimo senso di appagamento che noi crediamo di poter ricevere. Anzi, sembriamo tutti un po' più insoddisfatti, costantemente in crisi. 

Per tutti questi motivi penso che ancora una volta dalle cose solide e dalle scommesse giocate assieme con sacrificio possa ricominciare la dignità di ciascuno e di un mondo da non disprezzare più; ancora una volta dalla reazione distruttiva e autodistruttiva si può generare la vita. 
La lotta personale, la resistenza morale e ideale... tutto ciò è solido. Non mi sembra lo siano le urla, il liberarsi a cazzo, i proclami di bellezza. Ed è forse molto più semplice e solida la bellezza trovata per caso, non quella costruita per essere offerta a qualcuno.
Dovremmo imparare a distruggere tutte le certezze, attraverso noi stessi. Dovremmo riconoscere il valore della rinuncia. Dovremmo elevarci, dovrei elevarmi anch'io; ma da domani: per oggi sono troppo impegnato a riempire il mio vuoto con strategie ed idee per 31 sera. 

maledettamente perduto, 
Sebastian Recupero

mercoledì 25 dicembre 2013

..

Sono andati via tutti, adesso. Restiamo io e mio fratello a pulire; anzi in questo momento lui pulisce ed io scrivo queste stronzate.
In sottofondo la canzone che sentirete, il giorno che ci sorprende dalle ampie vetrate interrotte di questo locale. Mio fratello spegne alcune luci, spegne il fuoco.
Io non parlo, sono leggero mentre scrivo. Ho bevuto.
Stasera sono esattamente 8 anni che ci vediamo qui nello stesso giorno, suppergiù alla stessa ora, suppergiù le stesse persone.
Stasera, come da 8 anni a questa parte, abbiamo giocato a carte. Io ho perso, qualcuno ha vinto. Non vinco spesso,io; quando vinco di solito vinco alla grande, quando perdo invece.... perdo alla grandissima. Sorrido.
We came along this road. E soprattutto io sono. Io vivo, da perdente o da vincente, e vivo lo stesso. Da più di 8 anni, per più di altri 8 anni.
Io gioco, io vivo. Io perdo. Io ho vinto: perché tutto questo c'è perchè ci sono io, che pur stasera ho perso. Ed allora diamocelo: i perdenti hanno già vinto, prima di cominciare. Come gli immeritevoli, gli sfortunati, gli ultimi veri. Abbiamo vinto noi, da soli. Senza che la politica o le belle parole si occupino di noi. Buon Natale.

giovedì 19 dicembre 2013

Conversazione in Sicilia

"Io ero, in quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica che erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manif esti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete. 
Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non avere febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di nulla. Non mi importava che la mia ragazza mi aspettasse; raggiungerla o no, o sfogliare un dizionario era per me lo stesso. Ero quieto; ero come se non avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa essere felici, come se non avessi nulla da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere in gioco, e nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ric evere, e come se mai in tutti i miei anni di esistenza avessi mangiato pane, bevuto vino, o bevuto caffè, mai stato a letto con una ragazza, mai avuto dei figli, mai preso a pugni qualcuno, o non credessi tutto questo possibile, come se mai avessi avuto un ’infanzia in Sicilia tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne; ma mi agitavo dentro di me per astratti furori, e pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e l’acqua mi entrava nelle scarpe". 

Elio Vittorini

venerdì 13 dicembre 2013

Lettera agli uomini sotto le divise

Agli amici della Polizia di Stato, ai Carabinieri, alle forze dell'ordine tutte.


Scrivo, perché è la prima cosa utile che posso fare. Scrivo perché voglio mettere a posto tutti i pensieri, ordinatamente; ed in modo ordinato comunicare, fuori dal rumore assordante della piazza che si agita, giustamente. Inevitabilmente.
Scrivo, con lo stesso tono che si usa per riconciliare i sentimenti tra amici o tra amanti.
Scrivo a voi, donne e uomini al servizio di questo nostro Stato italiano, perché è il momento della verità, della schiettezza, della comprensione condivisa e soprattutto, perché è il momento della riconciliazione.

Questo nostro tempo di trasformazioni e di frammentazione è il tempo in cui una fase storica, quindi economica e poi politica, volge al termine. E come sempre nella storia, nell'approssimarsi della fine di un modello organizzativo, di un periodo tutto sommato stabile, regna inevitabilmente la paura e il disorientamento. Non voglio farla lunga, ma mi sia concesso spiegare cosa sta succedendo, secondo me, con i pochi strumenti che possiedo.

C'è stato un tempo in cui, dopo le macerie della guerra, dopo le privazioni materiali ed immateriali dell'inizio del secolo scorso, e dopo il grande abbaglio fascista, la comunità nazionale è stata rifondata politicamente attraverso le istituzioni e la Costituzione repubblicana. E' stato l'inevitabile processo di riassestamento dopo un periodo da dimenticare, favorito dai nuovi equilibri internazionali, dall'azione, dal finanziamento e dalla tutela degli americani. E' stato il risveglio di tutte le attività produttive e culturali di una nazione che non è mai stata veramente tale. Ma in tutta questa esplosione di vitalità, economia e anche di duro scontro politico, si andava cementando - purtroppo nascondendo malamente, come la polvere sotto al tappeto, tutte le contraddizioni sociali - la cultura piccolo borghese, e la cultura consumistica, come denunciava sempre Pier Paolo Pasolini.
Attraverso l'idea di benessere, quindi di capacità di consumo degli individui e delle famiglie, s'è fatta l'Italia. Abbiamo cominciato a credere, anche noi che non eravamo pronti, che fosse più importante essere ricompensati in denaro, con aumenti dei salari e degli stipendi, di quello che ci veniva tolto umanamente. E ci veniva tolta la nostra vera libertà di essere, di scegliere cosa fare della vita, del nostro tempo. Già, il tempo. Il tempo diventava velocemente una condizione legata alla nostra attività di consumo. Ed il consumo diventava la forma della società e della socialità.

Abbiamo pensato a lungo - e molti di noi lo pensano ancora oggi - di potere esser felici così. Ma guardiamole quelle nostre ipotetiche felicità: a rincorrere il possesso di qualcosa, spesso per poterlo vantare; a cercare una sicurezza pressoché assoluta in un posto di lavoro fisso e poi a sentirci, sicuramente, come gli ingranaggi di una macchina, anonimi; o ancora a costruirci una casa piena di oggetti inutili e molto spesso vuota di grandi passioni, di grande ambizione, di vita; a cominciare a pensare in termini di "tempo libero" e "tempo occupato", come se fossimo degli automi; per di più a spendere spesso il nostro tempo libero in attività votate a consumare: dal lunedì al venerdì/sabato lavoro, ogni sera televisione (poi sempre di più facebook), venerdì cinema, sabato la pizza fuori con la famiglia e qualche amico, domenica le partite in tv e poi, magari, un giro al centro commerciale. Tutte le settimane, per anni e anni. Felicità, morte insomma.
Quell'illusione della stabilità consumistica e del benessere hanno avuto un costo molto elevato:la complessità sociale e le difficoltà dei popoli d'Italia vennero tenute a bada da una politica che aveva imboccato una strada oramai senza uscita (quella dell'americanizzazione, dell'europeismo economico), attraverso la creazione di debito pubblico, la corruzione, l'assistenzialismo.
Ma non è solo questo il problema. C'è qualcosa di più.

Il mondo si trasforma molto più velocemente che in passato, la tecnologia ha consentito una sempre più forte globalizzazione. Non esiste più lo Stato, se non sulla carta. Non ha più senso l'idea di nazione. Il mondo tende ad essere una rete fitta di relazioni e comunità immateriali.
Cioè, voglio dire che se vi fermate un attimo a riflettere, noterete che i confini non esistono più e che il fatto di abitare assieme in un determinato luogo non porta automaticamente alla creazione di una comunità. Anzi, guardiamo noi, il nostro essere, la nostra presenza materiale e "spirituale" nel paese in cui abitiamo. Io guardo al mio paese, Patti, e mi domando: cosa vuol dire essere pattesi oggi? Cosa mi unisce davvero e necessariamente con gli altri abitanti del mio paese? È una risposta dura la mia: significa solo l'evocazione di una presunta storia gloriosa e la retorica; o, in ultima analisi, lo status giuridico di residenza in un comune denominato "Patti".
I miei legami veri, i miei interessi, le mie aspirazioni, sono altrove. Probabilmente, nel 2013, potremmo sentirci più in sintonia con un cittadino cileno, o islandese. Ed è normale, direi... naturale.
Cambia tutto: il senso dell'esistenza, il modo di guardare al mondo, il modo in cui intendere le relazioni sociali, l'idea di lavoro, l'idea di politica. Crollano le gabbie mentali della religione (ed era ora), perde di significato (anche qui: finalmente!) l'istituto matrimoniale - così da evitare di fare una cazzata giusto perché c'è una forma che qualcuno ci ha imposto di seguire -, cambiano le forme dell'organizzazione sociale, cambiano le abitudini, cambiano i costumi.

È importante spiegare che tutte le trasformazioni in atto sono mosse dall'economia, in un circolo vizioso dove abbiamo bisogno di qualcosa di sempre nuovo perché il mercato ci offre qualcosa di sempre nuovo. Un altro mercato, poi, ci ha offerto da tempo l'opportunità di avere quel che desideriamo, anche se non è possibile averlo: è il mercato finanziario. Oggi questo ha raggiunto dimensioni così imponenti da aver creato praticamente un mondo parallelo: un mondo di carta.
Quello che bisogna capire è che la politica oggi non risiede più negli Stati - che come ho già detto, sono svuotati del loro significato storico - ma nei mercati, ed in particolare in quello finanziario. Il Parlamento e i governi, praticamente, non decidono più nulla perché sono vincolati dalle leggi economiche, e non tanto dall'Unione Europea che, seppur dotata dell'ultimo brandello di potere politico tradizionale, è solo un'esecutrice di quelle leggi, e ne comanda l'attuazione in tutti gli Stati.

In tutto questo cambiare, in mezzo alle trasformazioni di cui spesso non capiamo bene il significato, non cambiano (perché è effettivamente difficile, farle cambiare) le istituzioni, né le forme della politica; non cambiano, e noi continuiamo a votare pensando che si possa fare qualcosa di rivoluzionario da dentro le istituzioni, e al massimo ce la prendiamo con i politici corrotti. Non è così: non si può rivoluzionare nulla dall'interno, e non è vero che il problema siano gli stipendi e gli sprechi della politica. Sono piccolezze, credetemi; cose che ci fanno chiacchierare e incazzare come per una partita di calcio. Ed è odioso pensare che ci interessa di più difendere un inno e una bandiera nelle piazze, invece che riprenderci la nostra dignità, la nostra umanità.
Ma, amici delle forze dell'ordine, non è nemmeno vero che è solo difendendo lo Stato si difende la democrazia. Io, sinceramente, non sono un appassionato di democrazia (che è l'utopia più forte di ogni tempo, quindi costitutivamente irrealizzabile) ma devo affermare che sento di avere la certezza che nessuno può imporre un sistema autoritario "giusto"; perché è il concetto stesso di giustizia ad essere variabile; perché forse è giusto tenere in considerazione la diversità di ciascuno. E mi piacerebbe parlarvi, ma lo farò in altra sede, della mia idea di democrazia comunitaria.
Ad ogni modo qualsiasi forma di democrazia oggi è messa in pericolo dal permanere dello Stato, notabile dei mercati, e di una Unione Europea promotrice di politiche di austerity per la stabilizzazione di un sistema economico che vede noi tutti, ancora una volta, umiliati e offesi. E lo siamo tutti quanti: anche se voi agenti di polizia o carabinieri o guardie di finanza, o militari insieme ad altre categorie di lavoratori dipendenti, riuscite, con uno stipendio misero, a campare e a tenervi all'asciutto ancora un po', mi chiedo come vivrete tra alle macerie sociali, che senso avrà la vostra vita in mezzo alla disperazione e alla morte; alla disperazione e alla morte che saranno servite per salvare uno Stato inutile e allo stesso tempo un'economia alienante, che rincoglionisce noi di falsi miti e arricchisce sempre i più furbi.

Uso il "voi" solo per distinguerci rispetto i nostri attuali ruoli sociali, attribuitici dalla società capitalistica. E' l'economia che attraverso la politica ci divide; ci fa dimenticare che in fondo siamo tutti uguali, che viviamo gli stessi malesseri, abbiamo gli stessi istinti e le stesse passioni. Che siamo tutti quanti esseri umani; e tutti tragicamente sfruttati. Invece succede che quando ci troviamo in piazza ci insultiamo e ce le diamo di santa ragione. A questo proposito vorrei segnalare che gli stronzi ci sono nei movimenti e nelle forze dell'ordine; ci sono nel mondo, in generale. Ma la gran parte di noi, che non vuole essere stronza, deve trovare il coraggio di parlarsi e di superare gli abusi: quelli di potere dovuti alla divisa e all'idea di ordine autoritario; quelli di acculturamento e spocchiosità dovuti ad un percorso di vita borghesemente universitario o indipendente e senza responsabilità.
Vorrei dire che purtroppo gli scontri - ad esempio sulla Tav, o nelle Università - ce li dovremo sopportare ancora: perché la Polizia fa la polizia e i ribelli devono essere ribelli e non devono affatto andarci piano. Eppure... se si guardasse a quelle manifestazioni nel contesto di quello che ho descritto poco fa, se si aggiungesse che è proprio il rifiuto di questa società che ci spinge ad attuare quelle proteste (contro la Tav significa: basta speculazioni, basta alta velocità e ricominciamo ad andare con calma, basta grandi opere che servono solo al sistema dei ricchi, basta sfasciare l'ambiente col cemento) si potrebbe dialogare, e forse togliersi i caschi per sempre - e in tanti.
Quindi voglio usare ancora un "noi" che comprende anche gli amici sfruttati e umiliati delle forze dell'ordine. E voglio dire che questo ordine, che le istituzioni politiche vogliono continuare a difendere, serve a tutelare gli interessi di certe lobby, di certi milionari, di certi privilegiati che oltre ad essere diventati ricchi spesso con modalità abiette, lo sono pure troppo. E' questo l'ordine dove noi poveri disgraziati annaspiamo e tiriamo a campare. In questo ordine siamo divisi, e non ha senso. 
Tutti assieme, innanzitutto aprendo un dialogo e prendendo coscienza, possiamo fare qualcosa di importante: testimoniare e imporre il nostro dissenso. Uniti si fa la differenza e nessuno resta solo.