"Io ero, in quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di
questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica che erano astratti, non eroici, non
vivi; furori, in qualche modo,
per il genere umano perduto. Da molto tempo questo,
ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo;
vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il
capo; e avevo una ragazza o moglie
che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una
parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e
io avevo le scarpe rotte, l’acqua che entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che
questo: pioggia, massacri sui manif
esti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte,
muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.
Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano
perduto e non avere febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad
esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non
avevo voglia di nulla. Non mi importava che la mia ragazza mi aspettasse;
raggiungerla o no, o sfogliare un dizionario era per me lo stesso. Ero
quieto; ero come
se non avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa essere
felici, come se non avessi nulla da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere
in gioco, e nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ric
evere, e come se
mai in tutti i miei anni di esistenza avessi mangiato pane, bevuto vino, o bevuto caffè,
mai stato a letto con una ragazza, mai avuto dei figli, mai preso a pugni qualcuno, o
non credessi tutto questo possibile, come se mai avessi avuto un
’infanzia in Sicilia tra
i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne; ma mi agitavo dentro di me per astratti furori,
e pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola
agli amici, e l’acqua mi entrava nelle scarpe".
Elio Vittorini
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