Mi ricordo. Mi ricordo l'ultima volta che facemmo all'amore.
Una sera scritta con la penna senza più inchiostro, a tratti scomposti, ricalcati, a vuoto. I corpi nostri come quel tratto di penna: sesso, lasciato svuotare senza che nessuno di noi due avesse febbre di rigenerarsi. Noi, che non fummo mai la "bic", la penna usa e getta, ma sempre stilografica da amare, erotizzare, sessuare, da far figliare.
Una pagina bianca mancata, quella volta lì; eppure densa.
Mi ricordo ancora quella sera con le risate della stanchezza, con le pene dell'incomprensione.
Spogliarmi non è mai stato così ridicolo: un buco alla calza del piede destro, due buchi alla maglietta sotto al maglione azzurro. E automatismi non di festa, ma di fine lavoro: come spogliarsi per l'ultima volta per gioco della divisa, quando il lavoro è già finito da un pezzo. I buchi quella sera si notavano tutti, rimanevano dentro di noi, ci davano già la sensazione di quanto stesse accadendo: un deterioramento cercato e trovato nella luce piena di un calorifero, quando il calore nostro lo avevamo scrollato di dosso già da un pezzo. Altre sere avevo indossato quella maglietta, altri buchi avevo trovato rientrando a casa tra le mie dita del piede; eppure non sentimmo mai il vento gelido che dal nord dei nostri cuori li attraversava.
Mi ricordo... le resistenze, la luce dal basso, la confusione. Mi ricordo la resa. Sapevamo il bicchiere scheggiato eppur vi brindavamo: più retorica della retorica arrivava la domanda: "e ora?". E ora brindiamo alla nostra imbecillità. Alle nostre fughe. Al nostro amarci e desiderare che l'amore non esista; che non esistano catene, che non esista la comprensione. E ora, ancora una volta, perdiamoci, questa volta per sempre, in qualche modo; diversamente.
Amare è costruirsi un riparo dal mondo, perfino dal leninismo o dal libertarismo che abbiamo predicato senza coerenza... perché non esistono in maniera assoluta dei mondi pubblici che possano essere giusti. Amare un'altra persona, tenersi per mano è l'unico moto di Rivoluzione.
Amare e amaro sono parole non molto dissimili, chissà perché. E di certo non l'ho scritto solo io adesso, e mi par più banale di quanto non sia. Amaro fu il miele di luglio, scrissi; amara la paura di resistersi oltre quel miele.
Ricordo le coperte di cui non avemmo bisogno mai, fuorché quell'ultima volta: come coprirsi nelle notti fredde di una stanza piena di estranei; e ancora... come svolgere le prove di una casa il giorno prima del trasloco.
Ricordo quelle coperte, rubate ad un'altra storia, come un segnale di stanchezza; e va da sé.
Una notte sbagliata, delle mille che sbagliammo: senza fiori, senza poesie, senza tetto, in una stanza di una casa che non esiste o che forse esistette troppo male per poter avere ancora una finestra sul nostro mondo, sulla nostra salvezza, per come l'avevamo saputa generare.
[Del bene non si parla mai, perché il bene non fa rumore].
Così, nelle altre notti senza amore, nel ripensare alla miseria delle vite spese nel troppo commercio con gli altri, all'edonismo che manca di eros, di impegno e di sogno, con l'incapacità mia di tornare indietro rispetto alla qualità della vita scelta ed in parte goduta, sono qui; e mi fermo a scrivere. E scrivendo ancora amo, per l'eternità; senza buchi alle dita dei piedi e nel mio mondo senza macchie nei dintorni dell'anima.
Dove è il silenzio.