A lungo, nella mia vita, ho avuto molte cose da dire, molte cose da fare. Ho fatto e detto molte cose. Poi, di colpo, mi son fermato.
A dire il vero non è la prima vota che mi accade: questo senso di vuoto, di inutilità, di spaesamento, questa condizione prenichilista, tutto questo mi ha già accompagnato in tante transizioni della mia esistenza. Ma la passione politica fino a ieri era sempre rimasta ancorata dentro di me. Poi, a ventiquattro anni, ti svegli dal tuo stato di stordimento sentimentale e non c'è più nemmeno quella. Perché?
Due direttrici diverse che alla fine si congiungono.
Da un lato l'impossibilità, avvertita in modo sempre più incalzante, di poter cambiare l'organizzazione sociale e culturale con un'azione politica tanto di tipo riformistico-istituzionale, quanto riformistico-movimentista. Di più... la difficoltà di approntare una rivoluzione in senso tradizionale, otto-novecentesco.
Impossibilità perché, per via istituzionale, non si può delegittimare il corso delle politiche, del diritto, della organizzazione internazionale con gli strumenti offerti da questo stesso sistema; per via movimentistica, perché la lotta sulle contingenze è prevista, accettata ed addirittura istituzionalizzata dal sistema e non si riesce a lanciare un'azione globale di cambiamento. Per quanto certi risultati (sempre contingenti) appaiono come delle vittorie, essi sono fagocitati e digeriti dal sistema in men che non si dica.
E poi... la rivoluzione con l'affermazione del socialismo a livello continentale, e via via globale, appare forse un po' troppo ambiziosa (anche se resta la soluzione che moralmente condivido di più) nel mondo totalmente trasformato dalla globalizzazione e dallo sviluppo della tecnologia.
L'altra direttrice del mio smarrimento, attraversa vie personali; quindi umane, antropiche.
"Paradossalmente il sistema capitalistico è quello che si avvicina di più alla realtà dei rapporti di forza tra gli uomini ed alla loro natura" mi disse un mio amico l'altra sera ad un concerto. Ora, lungi dal voler in queste sede contestare con mille ricognizioni teoriche la fondatezza di questa ipotesi, personalmente mi devo dire contrario. Ma non posso del tutto ignorare che, se la missione della modernità, fondata sulla nascita del capitalismo nel 400, era [ed è] il trionfo dell'uomo sulla natura, cioè un più marcato antropocentrismo, la ricerca di potenza e il tentativo di affermazione ideologica (o religiosa) in essa contenuti mi sembrano mutuati dal micro (o macro?) sistema delle relazioni umane.
Dove voglio andare a parare? Al fatto che l'esclusione sociale, quella vera, non avviene solo per motivi economici, politici, ideologici, o religiosi; piuttosto essa ha a che fare con la propria competenza a trovare spazio all'interno di un gruppo sociale. Cioè, voglio dire, mi pare chiaro che la concorrenza di cui si parla quando ci occupiamo di economia, impresa, commercio tout court, sia stata carpita dalle caratteristiche intrinseche dell'umanità e trasformata in modello di sviluppo politico totale. La competizione a livello umano e sociale, la tensione ad affermarsi e ad escludere, non mi pare sia un'invenzione figlia di retaggi di un primo e superato darwinismo quanto, e piuttosto, una realtà fattuale riscontrabile oggi esattamente come migliaia di anni fa.
Un altro mio amico, un movimentista espatriato in un paese molto movimentista, libertario e gioioso: " Quegli sfigati di lotta comunista che non capiscono un cazzo del marxismo, me li ricordo lì con il professorino che ti volevano inculcare delle idee e basta. Il professorino che ti diceva che drogarsi è sbagliato e poi aveva in bella mostra il pacchetto di Camel gialle, secondo me doveva essere un frustrato". Bene, io credo che su certe contraddizioni degli uomini e dei gruppi politici, come quelle emerse in questo caso [anche se ognuno di noi dovrebbe badare con lo stesso fervore alle proprie], dobbiamo essere tutti d'accordo con il mio amico; anche sul fatto che una visione ortodossa del maxismo-leninismo sia troppo statica e religiosa, si può convenire [ ma su questo mi permetto di non avere le idee chiare]; ma... quello che ho pensato e detto subito è stato: "sfigati?" "frustrati'?" - "ma perché?".
Perché questo linguaggio insomma: da dove proviene? E', evidentemente, il retaggio di qualcosa di incancellabile. Di profondo.
Mi ricordo di quando cominciai a frequentare per le prime volte gli ambienti politici della sinistra messinese. Io, al tempo, mi definivo semplicemente "socialista". Ero stato anche inscritto al Partito che si chiama "socialista". Invece lì, tutti
erano, o si dichiarano a vario titolo, "comunisti". Ci può stare che la parola con la quale io mi identifico evochi qualcosa di disgustoso, di ambiguo o solo di spurio, di incompleto. Ci può anche stare che io sia in torto nella comprensione di una visione ideale , ideologica o solamente filosofica. Ero figlio di un Dio minore, ma io stavo lì: con i "comunisti", quasi tutti i giorni. Avevo fiducia, li rispettavo, avevo voglia di ascoltarli e anche di disciplinarmi alla vita del partito, come fosse una famiglia. Eppure restavo "il socialista", ed ero guardato con gli occhi del dubbio. Solo con molta pazienza riuscii a integrarmi e farmi rispettare (un minimo) nella mia umanità semplice ed ingenua.
Poi però la realtà del partito, tra congressi ed elezioni, si fece più stringente: le logiche interne - di cui non vi racconterò, ma che sono quelle tipiche dell'oligarchia di partito (per dirla alla Michels) - mi fecero successivamente allontanare in modo definitivo da quello che sembrava poter essere un modo nuovo di fare la politica ed invece si mostrò sempre più vecchio.
Mi avvicinai al movimento universitario, per un brevissimo periodo. Fini una sera di occupazione - occupazione alla quale, in realtà, per dovere di cronaca e per rispetto di quelli che l'hanno portata avanti, io non partecipai mai attivamente - alla frase pronunciata da un occupante dopo una mia risposta negativa: "questi giovani rivoluzionari di oggi [credo di avere la stessa età del ragazzo] non hanno più manco una cartina lunga. Ecco perché le cose vanno male". Ovviamente non sono così imbecille da dedurre da questa cosa un sentimento generale o lo spirito di un'azione politica; ma certamente le parole hanno un peso. E soprattutto hanno un motivo.
Per una serie di occorrenze e sentimenti contrastati, mi accorsi che quella non era la rivoluzione che volevo fare io.
Così, mentre tutto il mondo viveva la sua crisi economica e la sua crisi strutturale, mentre i rapporti economici e sociali, in Italia e nel mondo, rimanevano gli stessi, io mi ero perso.
L'ultima prova attiva, in quel periodo, fu la mia partecipazione alle elezioni amministrative di Patti con un movimento, che però tutti sanno essere stata una partecipazione troppo idealistica e poco concreta. In effetti non credevo più nel potere costituzionale-istituzionale, e predicavo un cambiamento che non poteva essere contenuto all'interno delle gabbie elettorali. Fu un fallimento per tanti, ma soprattutto un mio fallimento personale. Poco durò l'effetto della "vittoria" referendaria per l'acqua pubblica: azione che rivendico ma che, oggi, forse non rifarei, alla luce della presunzione della mia visione strutturalista e del mio buio interiore.
La crisi. La crisi, tra il 2011 e il 2012, era entrata dentro di me. E' la mia crisi. Ed è politica?
E' una crisi più profonda, che ho realizzato a cominciare dal marzo del 2012: l'avversione totale verso qualsiasi forma di antropocentrismo come incipit, e la sfuducia generale nella natura umana come fine.
Un uomo in crisi, che, come me, non vuole vergognarsi di non avere momentaneamente certezze, finisce abbandonato a se stesso.
Corollari? Se crolla la fiducia nel cambiamento, nella possibilità di sovversione rispetto a qualcosa che ci opprime, si comincia a fluttuare senza corrispondenze in una realtà già di per sé liquida; perdi la tua capacità di tenere le redini di tutti gli elementi della vita. Così è stato per me.
Instabilità personali, economiche, e affettive non riuscivano più ad essere ancorate alle mie poche certezze, perché nel frattempo esse avevano smesso di esistere.
E così ho passato, e passo ancora, uno dei periodi più delicati della mia vita.
Sono solo, si. Per colpa o per destino, oggi sono solo.
E non mi va di stare al passo, di tenere testa alla velocità della moda, del gusto, del pensiero, dei vezzi culturali. Non mi va più di accettare un ruolo da protagonista per una realtà strutturalmente ipocrita: tanto nella politica, quanto nella semplice vita relazionale.
Non accetto il perbenismo e la razionalizzazione della politica di partito, né l'eccessivo afflato artistico e poetico delle rivoluzioni di strada. Quando è moda e moda, mi verrebbe da pesare mutuando Gaber. E Pasolini.
E non accetto queste cose perché rifiuto di lavorare per una "rivoluzione" o una "riforma" della società che continui a perpetrare l'esclusione dei soggetti più deboli. Non accetto la legge del più forte, dal livello micro.
I deboli non sono i poveri, i migranti, le vittime di violenza, i torturati per motivi politci o religiosi, gli omosessuali, i palestinesi, i siriani etc..; ma sono quelli che non hanno merito, che non sanno competere, che non hanno la competenza a competere, che non si adeguano (e non per arte), che sono ingenui. Questi sono i soggetti deboli, secondo me. Ed essi esistono al di là di tutte queste categorizzazioni politiche che si tendono a creare per fini propagandistici e per ridare fiato alle nostre coscienze. Se non fosse "vergognoso" ammetterlo, in una società che anche tra i suoi prodi rivoluzionari gioca a chi ce l'ha più lungo, vi direi che io mi sento un debole. E alla fine ve l'ho detto.
Vivo e vivrò di tutto quello che mi piace, troverò ancora una volta, e come tutti, nuove strade. Ma di certo vorrei evitare di venirvi ad insegnare la strada per una società più giusta e per un modello politico inclusivo e finalmente felice. Perché per me tutto questo non ha più senso. Il male che, in fondo, cerchiamo di combattere è dentro di noi: ma non in qualità di individui o come prodotti della società; piuttosto in quanto umani. Allora, dato che non possiamo che essere umani, quel male non è un male. E' solo qualcosa che si risolve per caso, di volta in volta e senza nessuna rivoluzione.
Io non mi sento in grado, ad oggi, di partecipare ad alcuna rivoluzione, né azione culturale. E questo perché se si tratta solo di cambiare la forma, di garantire per un po' nuovi diritti o anche di garantire a tutti la dignità politica, in senso economico e sociale, non mi interessa. O meglio... non mi basta.
Semplicemente, in questo momento, posso lottare contro me stesso per riformarmi e tenermi meno human dei miei ipotetici riferimenti culturali; per imparare a costruire senza ostentare; e per non vergognarmi di essere debole.
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