Non manca molto, le elezioni sono ormai vicine. In questi giorni i politici faranno una campagna elettorale più serrata e più infuocata.
Ma quest'anno, che non manca molto, lo capiamo anche perché c'è stata questa strana coincidenza con l'altro carnevale, quello tradizionale.
Peppino Impastato del carnevale scriveva:
"Oggi si butta giù
la maschera, mascherandosi.
Il carnevale
è una festa davvero strana:
si vince l'ipocrisia
erigendole un monumento mascherato".
Quale miglior monumento se non una democrazia, finisco col chiedermi.
Capitale. Carnevale. Società. Spettacolo. Politica. Unendo i puntini esce fuori la raffigurazione chiara del mondo contemporaneo.
In questa società dello spettacolo ci si deve persino preoccupare del Festival Sanremo, che, secondo alcuni, potrebbe ridurre gli spazi della campagna elettorale o addirittura condizionare l'opinione pubblica. In sostanza... credo che la prima sia un'affermazione falsa; mentre la seconda vera in parte. Ma in questa sede non ci interessa approfondire, per cui andrò oltre.
L'altra faccenda "calda" che finisce nel calderone della campagna elettorale, riguarda le dimissioni del Papa: si intravedono già, da un lato commenti istituzionali e bonari molto molto ipocriti, e, dall'altro, interpretazioni pseudo politiche che in realtà, divenendo troppo esagerate, allontanano la verità di una vicenda che davvero nasconde un significato politico internazionale; ma molto delicato e complesso. In realtà, non oso immaginare su quali cazzate sposterà la nostra attenzione questa vicenda del Ratzinger, e quanto, ancora di più, ci drogherà mediaticamente fino a non farci più interessare al resto. Beh, magari questo no: ma certamente, da quel che vedo, il modo in cui verrà affrontata la vicenda da ora in avanti è il solito modo spettacolare e sensazionalista; per cui, ancora una volta, la realtà e la substantia del discorso poltico sono minacciate.
Ma lasciamo perdere anche questa vicenda, e proiettiamoci molto più in avanti.
Una cosa davvero interessante è che nelle nostre democrazie occidentali, in campagna elettorale, non si parla mai di politica: si affrontano temi, si sviscerano cifre, si fanno proposte più o meno improbabili, si ride, ci si accusa, si chiamano in causa giaguari e macchie... ma non si parla - realmente - di politica. Intendo dire che il nodo centrale di tutte le questioni aperte dovrebbe essere l'interrogarsi sul ruolo, la forza, i luoghi e i modi in cui nel 2013 è agita la politica. Di cosa è oggi la politica e di come può funzionare meglio.
Di tutti i paesi occidentali, da questo punto di vista, l'Italia è uno dei quelli che evitano queste tematiche in modo più diventente: da un lato Berlusconi, che di per sé (ormai lo sappiamo) è improponibile, continua ad affermare i mali del comunismo seguito a ruota da Monti e - che Dio lo abbia in gloria - da Giorgio Napolitano, uno dei peggiori ex-esponenti del P.C.I. (questa sua qualità valga come spiegazione della permanenza al Quirinale); dall'altro lato la sinistra radical chic si perde in congetture ed in lezioni di morale, mentre la sinistra delle banche, dei giornali e delle cooperative ammanta di un bieco parternalismo questa competizione elettorale. Poi c'è la magistratura e c'è il mondo della stampa: essi sono responsabili di compiere fin troppi abusi, determinando situazioni politiche strumentali (ma questo è, in parte, un fenomeno mondiale). In fine i talk show televisivi: dei perfetti teatrini; ma rispetto a quelli degli altri paesi occidentali (equalmente vuoti ed insignificanti) hanno il pregio di farci "divertire" di più. Sono tragicomici.
Non mi va di commentare quello che ho sentito in campagna elettorale. Qualche parola, tuttavia, la spenderò per Giorgio Napolitano, il quale ha affermato che il comunismo ha fallito storicamente.
Non voglio, in questa sede, insultare il Presidente della Repubblica (anche se lo meriterebbe), ma mi sia consentito dire che quell'affermazione è fuori luogo, in mala fede, ovviamente falsa e per nulla superpartes. Essa tende ad incidere sulla campagna elettorale sulla scia Berlusconi-Monti (il primo è dal '94 che vende il mito della salvezza dai comunisti, il secondo ha affermato che il Pd sarebbe nato nel 1921, anno di fondazione del Partito Comunista d'Italia, volendone dare una visione negativa) ma soprattutto a continuare a ingannare gli italiani. Sia chiaro: il comunismo non ha fallito! e questo perché semplicemente non si è mai realizzato. Semmai le esperienze politiche nazionali di ispirazione marxista sono state sconfitte dalla potenza occidentale e dal suo sistema dei consumi. Questo sistema ottenne ben presto consenso ed efficacia nella regolazione sociale dell'occidente, generando fiducia e coesione politica. Rispetto alla società di spettacolo e di consumo occidentale, il blocco dei paesi socialisti non fu in grado di trovare uno strumento di competizione.
Tra le due affermazioni c'è una differenza sostanziale! La prima implica che il sistema comunista non funzioni strutturalmente; la seconda racconta come è andata la storia e dice che la forza imperialista dei paesi capitalisti ha ucciso e ha sconfitto le esperienze comuniste.
La cosa grave è spostare sempre il dibattito su queste stronzate.
Parentesi chiusa.
Ora, mentre accade questo niente politico - e viene spettacolarizzato -, di dove stiano andando l'Europa e il mondo, di come quello che accade in qualsiasi parte del pianeta si ripercuota nelle nostre piccole comunità, di quanto incidano le scelte delle multinazionali e dei gruppi finanziari internazionali, di tutto questo... non ne parla nessuno.
Come è possibile che non riusciamo a ribellarci a queste campagne elettorali, al rito stesso del voto, alle solite forme della partecipazione, quando è sotto gli occhi di tutti che il luogo della politica oggi non è più lo Stato ma si è spostato nel mercato, o meglio nei mercati?
La situazione internazionale, e di conseguenza quella italiana, - è bene ricordarlo - non può essere spiegata e risolta né con slogan né con enunciati sistematici derivanti da una visione ideologica rivoluzionaria. E' una vicenda complessa. Basti pensare all'interconnessione del capitalismo monetario e di quello finanziario; al livello di radicamento delle logiche del mercato; a tutti gli istituti e ai meccanismi generati da questo sistema, che abbietto per com'è, determina le politiche dei nostri governi... ma anche le nostre azioni individuali.
Pensiamo al caso degli F35: è una vicenda che ha ripercussioni diplomatiche e direttamente economiche, difficile da gestire. La responsabilità diretta dei promotori è ormai accertata; l'avversione ideologica di moltissimi di noi pure. Ma resta difficile sbrogliare con slogan o enunciazioni morali il complesso di situazioni generatosi e di quelle che potrebbero generarsi con un ritiro dalla partecipazione al progetto promosso dalla Lookheed. Sostanzialmente temo che sarà difficile per Bersani e Vendola "tagliare" gli F35, dopo che, nel 1998, è stato proprio Massimo D'Alema, uno dei lobbisti più importanti d'Italia con la sua fondazione "ItalianiEuropei" ed eminente esponente del PD, a firmare il patto di collaborazione al progetto; difficile anche a seguito del fatto che le conseguenze negative di una brusca ritirata graverebbero non solo sui rapporti internazionali e sul posizionamento italiano dentro la NATO, ma anche su vicende economiche interne. E' utile ricordare che gli F35 sono già in produzione, tra poco anche in alcuni cantieri italiani. L'impianto è pronto; e ci lavoreranno operai italiani.
"[...] al
progetto F35 partecipa anche l’Italia con la produzione di alcune parti delle ali e della fusoliera nello stabilimento di Cameri (Novara). Il
nostro paese è un partner di secondo livello, con un investimento di 1
miliardo di euro a fronte dei 2,5 degli inglesi, e gli F35 sostituiranno
tra il 2015 e il 2026 gli Amx e i Tornado dell’Aeronautica e gli AV-8
Harrier della Marina. Lo stabilimento di Cameri costerà circa 800
milioni e la produzione delle ali di 1.251 apparecchi garantirà un
ritorno di 540 milioni. Lo stabilimento, però, diventerà «la seconda
catena d’assemblaggio mondiale ponendosi in lizza come futuro centro
europeo e mediterraneo di manutenzione e per l’applicazione delle
tecnologie stealth agli apparecchi»". [ Panorama.it, http://italia.panorama.it/F35-e-Eurofighter-Typhoon-in-Italia-gli-aerei-militari-di-nuova-generazione ]
I problemi relativi alle implicazioni sociali della realtà economica capitalistica sono all'odine del giorno da anni: si pensi alle commesse di enormi navi di lusso fatte in favore dei cantieri nautici italiani che, se ritirate a causa di politiche fiscali intese a ridurre le differenze sociali ridistribuendo la ricchezza (o a causa dell'evasione fiscale, che in Italia è servita, tra le tante cose, a scavalcare i principi della Costituzione che semplicemente non andava bene in un clima americanizzato, e per determinare un più marcato favore nei confronti del capitalismo), mettono a rischiomigliaia di posti di lavoro.
Ma nel caso degli F35 abbiamo una visione internazionale ed imperialista (poiché legata al potere militare) del sistema sociao-economico e della sua complessità. Certo, ad essere sinceri, sono molti di meno i problemi di rinconversione del lavoro nel settore altamente specializzato dell'industria da guerra, che in tutti gli altri settori. E nel caso di questi innovativi aerei, sempre per dirla tutta, si parlerebbe di poche cetinaia di lavoratori.
Tuttavia si aprono anche qui degli scenari che non si possono ignorare.
Un'altra delle situazioni contingenti di rilievo, sulla quali i movimenti hanno trovato il sostegno della politica istituazionale, riguarda il MUOS di Niscemi: il sofisticato sistema di antenne satellitari U.S.A., destinato a funzioni militari, che mette a rischio (secondo molti) la salute delle comunità locali, deturpa e saccheggia il territorio pubblico della "Riserva naturale orientata Sughereta", e, soprattutto, serve a rafforzare il sistema neoimperialistico occidentale filo-statunitense.
Ma, se è vero che c'è il sostegno del Presidente della Regione, di diversi gruppi politici, oltre che di larghissima parte dell'opinione pubblica, temo che le differenze sulle quali oggi si fonda questo sostegno, da parte di una così eterogenea platea, finiranno ancora una volta per non consegnarci una vittoria totale, anche nel caso in cui - straordinariamente- i lavori dovessero essere interrotti. Ferrandelli è stato il primo firmatario della mozione contro il MUOS all'Ars; i grillini tra i più convinti sostenitori; anche l'Udc sembra d'accordo. Ma... questi soggetti che idea hanno della politica internazionale? E poi... sono anch'essi anticapitalisti come i movimenti più animati che fanno parte del fronte NO MUOS? E il Presidente della Regione, Crocetta, che ha invitato Martin Schulz (Presidente inutile dell'inutile Parlmento Europeo) in Sicilia per fargli vedere che la Sicilia vuole stare in Europa e farà di tutto per adeguarsi... perché non gli chiedeva di prendere posizione sul MUOS?
E poi la gente comune. Glielo vogliamo dire o no che più che per la salute a noi importa fare una battaglia per riscrivere le logiche socio-economiche internazionali e non essere più oppressi dal sistema imperialistico? Vogliamo spiegare a tutti che vincere a Niscemi - e vincere davvero - vorrebbe dire cambiare il sistema internazionale?! Non sarebbe il caso di parlare in questi termini?!
Crocetta, Ferrandelli, il Pd, l'Udc... oltre ad avere le mani legate dai difficili equilibri politici nazionali... sono perfettamente inclusi in quel sistema, che difficilmente ripudieranno se questa istanza non partirà dal popolo. Per altro ormai, come stiamo vedendo, i loro poteri sono limitati dagli accordi internazionali: un vero tema sul quale non si discute mai!
A Niscemi si può fare vincere qualcosa di più grande che l'inutile orgoglio siciliano di tipo nazionalistico, o le più serie ragioni della salute e di sostenibilità ambientale. Cioè tutte queste questioni importanti, con una sicilianità che invece può voler dire una forma storica da reinterpretare in senso cosmopolita, possono vincere nel contesto più ampio della vittoria dell'avversione alla cultura capitalistica, dei consumi, della finanza e della lotta imperialistica che sta distruggendo il pianeta.
Ma forse ci vorrebbe un po' più di serietà e di chiarezza da parte di tutti quelli interessati alla vicenda.
Ho divagato. Ma volevo solo mettere in luce la complessità che anche questa vicenda mostra, per ribadire una volta di più la necessità di occuparsi di politica in altri termini. Per l'esattezza, in primo luogo, nei temini della comprensione del senso dell'azione politica nel XXI secolo, della ricerca di nuove forme e soprattutto dell'individuzione delle strutture e degli strumenti che devono rimpiazzare quelli che evidentemente non funzionano più: il partito di massa otto-novecentesco, lo Stato-Nazione, il parlamentarismo democratico moderno etc.
Le istuzioni politiche odierne, alle quali continuiamo a rapportarci e a dare il nostro consenso, sono esattamente quelle che, pur garantendo ancora una certa regolazione sociale generale, non rispondono più a quel principio della sovranità affidata al popolo che dovrebbe essere il fondamento della nostra gestione associativa della vita pubblica, anche nell'era tecnologica. Ma al di là del fatto che la sovranità del popolo debba essere o meno un principio ancora valido (in effetti, dal punto di vista dell'analisi sociale, temo che tutte le strutture e i concetti tendano a non avere più valore fuori dal loro tempo storico: sia "sovranità" che "popolo" possono esser rimpiazzati), nei fatti si verifica che mentre questo principio è pubblicizzato e difeso esteticamente, da uomini di potere ed istituzioni di tutto il mondo, nella realtà la sovranità è stata ormai ceduta, in larga parte, ai mercati. A tal proposito, vi propongo un passo tratto da Zigmunt Bauman:
"Se si concorda con l'affermazione di Carl Schmitt, secondo cui la prerogativa ultima che definisce la sovranità è il diritto di esentare, si deve ammettere che nella società dei consumatori il vero titolare del potere sovrano è il mercato dei beni di consumo; è lì, nel luogo dove si incontrano venditori e compratori, che avviene quotidianamente la selezione e la separazione tra chi è dannato e chi è salvo, chi è dentro e chi è fuori, chi è incluso e chi è escluso [...] Per respingere le proteste che a volte seguono i verdetti del mercato i politici hanno a disposizione la collaudata formula del "non eiste alternativa", diagnosi ch etende ad autorealizzarsi, ipotesi che produce la propria autoconferma. [...] In effetti non è lo Stato, e neanche il suo braccio esecutivo, a indebolirsi, erodersi, svuotarsi, a diventare un "ramo secco", ma la sua sovranità, la prerogativa che esso ha di tracciare la linea tra chi è incluso e chi è escluso, ivi compreso il diritto a riabilitare e a riammettere gli esclusi.
In parte, tale sovranità è stata già in certo qual modo limitata, ed è probabile che continui a ridursi, pezzo dopo pezzo, sotto la pressione di leggi vincolanti a livello globale, sostenute da organi giudisdizionali (...) che iniziano ad emergere. Questo processo ha tuttavia rilevanza secondaria o subordinata rispetto alla questione della nuova sovranità dei mercati, e cambia ben poco il modo in cui le decisooni sovrane vebgono prese e legittimate. Anche quando è spostata "in Alto" e trasferita a istituzioni sovrastatali, la sovranità (almeno dal punto di vista del principio cui essa si presume e si pensa ottemperi) continua a mescolare il potere con la politica e a subordinarlo alla sua supervisione; e, ciò che più conta, grazie al fatto di avere recapito fisso può essere contesta o riformata.
Molto più rivoluzionaria (...) è un'altra tendenza, che scardina in modo assai più radicale la sua sovranità: la tendenza dello Stato, indebolito, a trasferire lateralmente, anziché verso l'alto molte delle proprie funzioni e prerogative, cedendole al potere impersonale dei mercati, ovvero la sua resa sempre più totale alle forze del mercato, che si oppongono alle politiche sostenute e approvate dall'elettorato [...] ". [Z.B., Consumo, dunque sono, Laterza, Bari, 2010, pagg. 82-83]
A fronte di tutto ciò dovremmo decidere cosa fare: riformare lo Stato in modo che possa rispondere meglio alla "realtà liquida", magari contribuendo a condizionarla, e porlo più chiaramente nell'ambito della globalizazione, recuperando una sovranità che risieda finalmente nei popoli (però in ottica cosmopolita e non nazionalistica); oppure lavorare per abbattere lo Stato e sostituirlo con qualcosa di diverso, se gli si riconoscerà l'incapacità di modellarsi sul mondo contemporaneo e se lo si inquadrerà (finalmente) per quello che effettivamente ha rappresentato: un'istituzione figlia del capitalismo, utile al capitalismo.
Lenin saprebbe rispondere anche nel 2013 alla risposta "Che fare?". Io, che certamente non sono Lenin, non so rispondere. Ma temo che "fare", che "agire" sia molto più complesso di quanto i marxisti-leninisti, ancora oggi, pensino.
Però, chiaramente, è necessario fare qualcosa. Perché vivere è agire. Innanzitutto, bisogna fare qualcosa per tutelare ed offrire alla pienezza dell'esperienza sociale le nostre vite oggi. Sicuramente però ci dovremmo interessare di come far vincere un modello moralmente più forte e riuscire a limitare il nostro atteggiamento antropocentrico domani.
Quando si va incontro alle elezioni, purtroppo, non si ha contezza di tutto ciò: si è, così, tristemente coinvolti in una dimensione alienante fatta di cifre, dichiarazioni, slogan, battute, satira, accuse, scatti di orgoglio, riferimenti bibliografici usati un po' a cazzo e strumentalmente, che ci consegna l'idea per la quale l'unico terreno in cui poter agire la politica vera sia quello parlamentare. Facendoci giustamente indignare per la qualità del dibattito e per gli abusi della "casta".
Ma la verità è che la politica si trova in tanti luoghi; e forse il Parlamento è uno dei luoghi dove è meno presente. Questo concetto, sbrigativo e polemico, è ovviamente impreciso e indegno di un'analisi scientifica. Ma questa non lo è. Ed il messaggio che vorrei passasse credo che ormai sia chiaro: bisogna lavorare fuori dalle istituzioni storiche, costruire parallelamente l'alternativa. Con distanza da tutto ciò che è logoro e non ci appartiene, recuperare la sovranità.
Putroppo, ai tempi dello spettacolo generalizzato, la dialettica tra rivoluzionari e riformisti è piombata anch'essa sul palcoscenico del grande teatro. Lo penso quando mi rivedo nei cortei - solitamente abbastanza istituzionali, o comunque fagocitati dalle istituzioni abbastanza celermente - ai quali ho preso parte, con grande entusiasmo e con una voglia di agire genuina e istintiva, fino a qualche anno fa. Credo che impegnassimo male il nostro tempo: quei cortei non sono mai serviti a molto, se non a creare un po' di socialità (ma per quella di modi ce ne sono molti altri); e credo che facessimo troppo spettacolo anche noi: slogan, foto, musica, balli venduti come qualcosa che, in realtà, non riuscivano ad essere. Questa situazione, purtroppo, la vedo ancora oggi, peggiorata da Facebook: un senso di partecipazione che si è fatto via via più estetico che sostanziale - e che infatti riesce ad avvicinare alle "battaglie" condotte, anche la borghesia urbana pseudoacculturata senza metterla in discussione, e senza che essa si senta messa in discussione -, in linea con le logiche sistemiche e dunque (forse) poco utile a fini politici rivoluzionari. Senza contare che la maggioranza delle battaglie contingenti, più marcatamente dagli anni 90, hanno assunto i connotati della "controrivoluzione", più che della rivolzuione: cioè quello sforzo inteso a recuperare, in questo specifico caso, la condizione promessa, accarezzata ed in parte vissuta per mezzo della crescita economica, nel clima generale della società dell'abbondanza innauguratosi a partire dagli anni '60 del secolo scorso.
Ma non tutte le speranze sono perdute. Anzi, sono certo che recuperemo la bontà delle nostre istanze politiche di trasformazione e le scioglieremo dai vincoli di partecipazione alla società dei consumi, per uscire finalmente fuori dal carnevale istituzionale e da quello controrivoluzionario.
Ai posteri, come sempre, l'ardua sentenza. A noi il compito di prendere parte, di sbilanciarci, di parteggiare. Di vivere.