domenica 29 dicembre 2013

Buone feste

"Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno. Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date. Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E sono diventati cosí invadenti e cosí fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Cosí la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa la film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante. Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca". 

Antonio Gramsci
1 Gennaio 1916, l’Avanti!


Che questo pensiero gramsciano, come tanti altri, sia ormai consolidato, entrato nella coscienza di molti, o forse di tutti, non c'è dubbio. Quello che continua a farmi riflettere è la nostra gioiosa finzione, la nostra insolente prodigalità, la nostra rassegnazione. Anzi, forse quello che diventa preoccupante è la nostra assoluta partecipazione ai riti antichi con un'inedita volontà di trasformarli e piegarli in ciò che  noi crediamo sia il nostro vantaggio. "Si, capodanno non significa un cazzo, ma noi facciamo festa perché è un'occasione come un'altra in cui ci sono potenziali situazioni di divertimento"- che significa sempre bere e/o scopare -  "Che ci frega, noi fottiamo il sistema così: festeggiando e stando assieme".
E si, la condizione perenne dell'affermazione di vita umana nel 2013/2014 è la festa. Ed oggi è sempre festa, ogni giorno c'è una potenziale festa. Sembra davvero che non sia rimasto altro. Assomigliamo a dei lupi famelici costantemente in cerca di una preda notturna; si perché poi le cose migliori le teniamo sempre per la notte. Ammazziamo le nostre ore di buio oscurandoci ancora di più la vista. Festeggiamo contro questo mondo di merda, non rendendoci conto che il mondo di merda è fatto da noi. 
No, adesso non voglio focalizzarmi sui consumi (non se ne può più di questo mio costante richiamo, per non dire scassamento di cazzo); non verrò a menarvela, inutilmente, sul fatto che mentre noi ci convinciamo di essere felici perché ci sbronziamo e ascoltiamo i concerti rock o di qualche altra musica gioviale, su di noi e sulla nostra esistenza marcia il capitalismo; no, per carità. Vi dirò soltanto che come minimo siamo persone che non hanno le palle; che non sono minimamente interessate a cambiare le cose, se non nei nostri bei proclami ideali e dei finti afflati rivoluzionari. E questo perché non sappiamo dove cazzo andare. Quindi preferiamo perderci dentro il tutto, credendo sia un modo per avere un'esistenza dignitosa, che certamente non ci può essere data dalla privazione. Ci giustifichiamo come si può.

Dalle feste comandate a cui si riferiva Gramsci siamo passati alle feste auto-comandate:  e non mi sembra un grande traguardo. 

Un attimo forse abbiamo pensato che in questa nostra periferia dell'impero ormai il capitalismo si gioca sui nostri vizi, sui nostri ipotetici voli libertari, sulle nostre cirrosi epatiche e sui nostri tumori? Cioè, voglio dire, il divertimento è divenuto un servizio, un servizio fondamentale della società capitalistica. Noi ci vendiamo, siamo venduti e vendiamo divertimento.
Io non riesco a capire, la mia testa non è buona.
Non riesco a capire quando sarà finito il tempo della festa, del sollazzo, dell'individualismo becero e venduto che, fatti due conti, non ci offre affatto questo grandissimo senso di appagamento che noi crediamo di poter ricevere. Anzi, sembriamo tutti un po' più insoddisfatti, costantemente in crisi. 

Per tutti questi motivi penso che ancora una volta dalle cose solide e dalle scommesse giocate assieme con sacrificio possa ricominciare la dignità di ciascuno e di un mondo da non disprezzare più; ancora una volta dalla reazione distruttiva e autodistruttiva si può generare la vita. 
La lotta personale, la resistenza morale e ideale... tutto ciò è solido. Non mi sembra lo siano le urla, il liberarsi a cazzo, i proclami di bellezza. Ed è forse molto più semplice e solida la bellezza trovata per caso, non quella costruita per essere offerta a qualcuno.
Dovremmo imparare a distruggere tutte le certezze, attraverso noi stessi. Dovremmo riconoscere il valore della rinuncia. Dovremmo elevarci, dovrei elevarmi anch'io; ma da domani: per oggi sono troppo impegnato a riempire il mio vuoto con strategie ed idee per 31 sera. 

maledettamente perduto, 
Sebastian Recupero

mercoledì 25 dicembre 2013

..

Sono andati via tutti, adesso. Restiamo io e mio fratello a pulire; anzi in questo momento lui pulisce ed io scrivo queste stronzate.
In sottofondo la canzone che sentirete, il giorno che ci sorprende dalle ampie vetrate interrotte di questo locale. Mio fratello spegne alcune luci, spegne il fuoco.
Io non parlo, sono leggero mentre scrivo. Ho bevuto.
Stasera sono esattamente 8 anni che ci vediamo qui nello stesso giorno, suppergiù alla stessa ora, suppergiù le stesse persone.
Stasera, come da 8 anni a questa parte, abbiamo giocato a carte. Io ho perso, qualcuno ha vinto. Non vinco spesso,io; quando vinco di solito vinco alla grande, quando perdo invece.... perdo alla grandissima. Sorrido.
We came along this road. E soprattutto io sono. Io vivo, da perdente o da vincente, e vivo lo stesso. Da più di 8 anni, per più di altri 8 anni.
Io gioco, io vivo. Io perdo. Io ho vinto: perché tutto questo c'è perchè ci sono io, che pur stasera ho perso. Ed allora diamocelo: i perdenti hanno già vinto, prima di cominciare. Come gli immeritevoli, gli sfortunati, gli ultimi veri. Abbiamo vinto noi, da soli. Senza che la politica o le belle parole si occupino di noi. Buon Natale.

giovedì 19 dicembre 2013

Conversazione in Sicilia

"Io ero, in quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica che erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manif esti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete. 
Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non avere febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di nulla. Non mi importava che la mia ragazza mi aspettasse; raggiungerla o no, o sfogliare un dizionario era per me lo stesso. Ero quieto; ero come se non avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa essere felici, come se non avessi nulla da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere in gioco, e nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ric evere, e come se mai in tutti i miei anni di esistenza avessi mangiato pane, bevuto vino, o bevuto caffè, mai stato a letto con una ragazza, mai avuto dei figli, mai preso a pugni qualcuno, o non credessi tutto questo possibile, come se mai avessi avuto un ’infanzia in Sicilia tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne; ma mi agitavo dentro di me per astratti furori, e pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e l’acqua mi entrava nelle scarpe". 

Elio Vittorini

venerdì 13 dicembre 2013

Lettera agli uomini sotto le divise

Agli amici della Polizia di Stato, ai Carabinieri, alle forze dell'ordine tutte.


Scrivo, perché è la prima cosa utile che posso fare. Scrivo perché voglio mettere a posto tutti i pensieri, ordinatamente; ed in modo ordinato comunicare, fuori dal rumore assordante della piazza che si agita, giustamente. Inevitabilmente.
Scrivo, con lo stesso tono che si usa per riconciliare i sentimenti tra amici o tra amanti.
Scrivo a voi, donne e uomini al servizio di questo nostro Stato italiano, perché è il momento della verità, della schiettezza, della comprensione condivisa e soprattutto, perché è il momento della riconciliazione.

Questo nostro tempo di trasformazioni e di frammentazione è il tempo in cui una fase storica, quindi economica e poi politica, volge al termine. E come sempre nella storia, nell'approssimarsi della fine di un modello organizzativo, di un periodo tutto sommato stabile, regna inevitabilmente la paura e il disorientamento. Non voglio farla lunga, ma mi sia concesso spiegare cosa sta succedendo, secondo me, con i pochi strumenti che possiedo.

C'è stato un tempo in cui, dopo le macerie della guerra, dopo le privazioni materiali ed immateriali dell'inizio del secolo scorso, e dopo il grande abbaglio fascista, la comunità nazionale è stata rifondata politicamente attraverso le istituzioni e la Costituzione repubblicana. E' stato l'inevitabile processo di riassestamento dopo un periodo da dimenticare, favorito dai nuovi equilibri internazionali, dall'azione, dal finanziamento e dalla tutela degli americani. E' stato il risveglio di tutte le attività produttive e culturali di una nazione che non è mai stata veramente tale. Ma in tutta questa esplosione di vitalità, economia e anche di duro scontro politico, si andava cementando - purtroppo nascondendo malamente, come la polvere sotto al tappeto, tutte le contraddizioni sociali - la cultura piccolo borghese, e la cultura consumistica, come denunciava sempre Pier Paolo Pasolini.
Attraverso l'idea di benessere, quindi di capacità di consumo degli individui e delle famiglie, s'è fatta l'Italia. Abbiamo cominciato a credere, anche noi che non eravamo pronti, che fosse più importante essere ricompensati in denaro, con aumenti dei salari e degli stipendi, di quello che ci veniva tolto umanamente. E ci veniva tolta la nostra vera libertà di essere, di scegliere cosa fare della vita, del nostro tempo. Già, il tempo. Il tempo diventava velocemente una condizione legata alla nostra attività di consumo. Ed il consumo diventava la forma della società e della socialità.

Abbiamo pensato a lungo - e molti di noi lo pensano ancora oggi - di potere esser felici così. Ma guardiamole quelle nostre ipotetiche felicità: a rincorrere il possesso di qualcosa, spesso per poterlo vantare; a cercare una sicurezza pressoché assoluta in un posto di lavoro fisso e poi a sentirci, sicuramente, come gli ingranaggi di una macchina, anonimi; o ancora a costruirci una casa piena di oggetti inutili e molto spesso vuota di grandi passioni, di grande ambizione, di vita; a cominciare a pensare in termini di "tempo libero" e "tempo occupato", come se fossimo degli automi; per di più a spendere spesso il nostro tempo libero in attività votate a consumare: dal lunedì al venerdì/sabato lavoro, ogni sera televisione (poi sempre di più facebook), venerdì cinema, sabato la pizza fuori con la famiglia e qualche amico, domenica le partite in tv e poi, magari, un giro al centro commerciale. Tutte le settimane, per anni e anni. Felicità, morte insomma.
Quell'illusione della stabilità consumistica e del benessere hanno avuto un costo molto elevato:la complessità sociale e le difficoltà dei popoli d'Italia vennero tenute a bada da una politica che aveva imboccato una strada oramai senza uscita (quella dell'americanizzazione, dell'europeismo economico), attraverso la creazione di debito pubblico, la corruzione, l'assistenzialismo.
Ma non è solo questo il problema. C'è qualcosa di più.

Il mondo si trasforma molto più velocemente che in passato, la tecnologia ha consentito una sempre più forte globalizzazione. Non esiste più lo Stato, se non sulla carta. Non ha più senso l'idea di nazione. Il mondo tende ad essere una rete fitta di relazioni e comunità immateriali.
Cioè, voglio dire che se vi fermate un attimo a riflettere, noterete che i confini non esistono più e che il fatto di abitare assieme in un determinato luogo non porta automaticamente alla creazione di una comunità. Anzi, guardiamo noi, il nostro essere, la nostra presenza materiale e "spirituale" nel paese in cui abitiamo. Io guardo al mio paese, Patti, e mi domando: cosa vuol dire essere pattesi oggi? Cosa mi unisce davvero e necessariamente con gli altri abitanti del mio paese? È una risposta dura la mia: significa solo l'evocazione di una presunta storia gloriosa e la retorica; o, in ultima analisi, lo status giuridico di residenza in un comune denominato "Patti".
I miei legami veri, i miei interessi, le mie aspirazioni, sono altrove. Probabilmente, nel 2013, potremmo sentirci più in sintonia con un cittadino cileno, o islandese. Ed è normale, direi... naturale.
Cambia tutto: il senso dell'esistenza, il modo di guardare al mondo, il modo in cui intendere le relazioni sociali, l'idea di lavoro, l'idea di politica. Crollano le gabbie mentali della religione (ed era ora), perde di significato (anche qui: finalmente!) l'istituto matrimoniale - così da evitare di fare una cazzata giusto perché c'è una forma che qualcuno ci ha imposto di seguire -, cambiano le forme dell'organizzazione sociale, cambiano le abitudini, cambiano i costumi.

È importante spiegare che tutte le trasformazioni in atto sono mosse dall'economia, in un circolo vizioso dove abbiamo bisogno di qualcosa di sempre nuovo perché il mercato ci offre qualcosa di sempre nuovo. Un altro mercato, poi, ci ha offerto da tempo l'opportunità di avere quel che desideriamo, anche se non è possibile averlo: è il mercato finanziario. Oggi questo ha raggiunto dimensioni così imponenti da aver creato praticamente un mondo parallelo: un mondo di carta.
Quello che bisogna capire è che la politica oggi non risiede più negli Stati - che come ho già detto, sono svuotati del loro significato storico - ma nei mercati, ed in particolare in quello finanziario. Il Parlamento e i governi, praticamente, non decidono più nulla perché sono vincolati dalle leggi economiche, e non tanto dall'Unione Europea che, seppur dotata dell'ultimo brandello di potere politico tradizionale, è solo un'esecutrice di quelle leggi, e ne comanda l'attuazione in tutti gli Stati.

In tutto questo cambiare, in mezzo alle trasformazioni di cui spesso non capiamo bene il significato, non cambiano (perché è effettivamente difficile, farle cambiare) le istituzioni, né le forme della politica; non cambiano, e noi continuiamo a votare pensando che si possa fare qualcosa di rivoluzionario da dentro le istituzioni, e al massimo ce la prendiamo con i politici corrotti. Non è così: non si può rivoluzionare nulla dall'interno, e non è vero che il problema siano gli stipendi e gli sprechi della politica. Sono piccolezze, credetemi; cose che ci fanno chiacchierare e incazzare come per una partita di calcio. Ed è odioso pensare che ci interessa di più difendere un inno e una bandiera nelle piazze, invece che riprenderci la nostra dignità, la nostra umanità.
Ma, amici delle forze dell'ordine, non è nemmeno vero che è solo difendendo lo Stato si difende la democrazia. Io, sinceramente, non sono un appassionato di democrazia (che è l'utopia più forte di ogni tempo, quindi costitutivamente irrealizzabile) ma devo affermare che sento di avere la certezza che nessuno può imporre un sistema autoritario "giusto"; perché è il concetto stesso di giustizia ad essere variabile; perché forse è giusto tenere in considerazione la diversità di ciascuno. E mi piacerebbe parlarvi, ma lo farò in altra sede, della mia idea di democrazia comunitaria.
Ad ogni modo qualsiasi forma di democrazia oggi è messa in pericolo dal permanere dello Stato, notabile dei mercati, e di una Unione Europea promotrice di politiche di austerity per la stabilizzazione di un sistema economico che vede noi tutti, ancora una volta, umiliati e offesi. E lo siamo tutti quanti: anche se voi agenti di polizia o carabinieri o guardie di finanza, o militari insieme ad altre categorie di lavoratori dipendenti, riuscite, con uno stipendio misero, a campare e a tenervi all'asciutto ancora un po', mi chiedo come vivrete tra alle macerie sociali, che senso avrà la vostra vita in mezzo alla disperazione e alla morte; alla disperazione e alla morte che saranno servite per salvare uno Stato inutile e allo stesso tempo un'economia alienante, che rincoglionisce noi di falsi miti e arricchisce sempre i più furbi.

Uso il "voi" solo per distinguerci rispetto i nostri attuali ruoli sociali, attribuitici dalla società capitalistica. E' l'economia che attraverso la politica ci divide; ci fa dimenticare che in fondo siamo tutti uguali, che viviamo gli stessi malesseri, abbiamo gli stessi istinti e le stesse passioni. Che siamo tutti quanti esseri umani; e tutti tragicamente sfruttati. Invece succede che quando ci troviamo in piazza ci insultiamo e ce le diamo di santa ragione. A questo proposito vorrei segnalare che gli stronzi ci sono nei movimenti e nelle forze dell'ordine; ci sono nel mondo, in generale. Ma la gran parte di noi, che non vuole essere stronza, deve trovare il coraggio di parlarsi e di superare gli abusi: quelli di potere dovuti alla divisa e all'idea di ordine autoritario; quelli di acculturamento e spocchiosità dovuti ad un percorso di vita borghesemente universitario o indipendente e senza responsabilità.
Vorrei dire che purtroppo gli scontri - ad esempio sulla Tav, o nelle Università - ce li dovremo sopportare ancora: perché la Polizia fa la polizia e i ribelli devono essere ribelli e non devono affatto andarci piano. Eppure... se si guardasse a quelle manifestazioni nel contesto di quello che ho descritto poco fa, se si aggiungesse che è proprio il rifiuto di questa società che ci spinge ad attuare quelle proteste (contro la Tav significa: basta speculazioni, basta alta velocità e ricominciamo ad andare con calma, basta grandi opere che servono solo al sistema dei ricchi, basta sfasciare l'ambiente col cemento) si potrebbe dialogare, e forse togliersi i caschi per sempre - e in tanti.
Quindi voglio usare ancora un "noi" che comprende anche gli amici sfruttati e umiliati delle forze dell'ordine. E voglio dire che questo ordine, che le istituzioni politiche vogliono continuare a difendere, serve a tutelare gli interessi di certe lobby, di certi milionari, di certi privilegiati che oltre ad essere diventati ricchi spesso con modalità abiette, lo sono pure troppo. E' questo l'ordine dove noi poveri disgraziati annaspiamo e tiriamo a campare. In questo ordine siamo divisi, e non ha senso. 
Tutti assieme, innanzitutto aprendo un dialogo e prendendo coscienza, possiamo fare qualcosa di importante: testimoniare e imporre il nostro dissenso. Uniti si fa la differenza e nessuno resta solo.





venerdì 12 luglio 2013

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"È vostra questa pianta dono del creatore

A lui salga la lode, voi che pagate crudele salvatore

In alto trasparente denso il cielo immobile vicino 

In basso umide nuvole rumore 

Di foresta lontano, lontano, lontano 

Renderà sopportate fame fatica orrore 

Le vostre sofferenze allevierà amate creature 

Vi terrà compagnia quando sarete soli di necessità 

Per ultimo non ultimo li polverizzerà 

Per ultimo non ultimo li polverizzerà".

martedì 9 luglio 2013

Appunti sulla globalizzazione del Papa.

Ieri il Papa, Francesco I, si trovava a Lampedusa.
La ricerca simbolica di luogi, mezzi ed azioni per fare rivivere il tema della fratellanza universale e della carità, nell'ambito del nuovo corso da ONG che la Chiesa romana vuole darsi per rimanere in vita in questa fase di interregno politico, mi sembra segnare un successo di grande importanza per l'organizzazione e la politica vaticana. Un successo della Chiesa senza Palazzo, ovviamente. Mentre il palazzo brucia o si rimpie di muffe. 
Trovo questo pontefice particolarmente interessato alla trattazione sociologica e politica, al contrario del suo predecessore, impegnato nella dottrina, nella teologia e nella gestione degli equilibri organizzativi. Ed in particolare di Francesco colpisce il richiamo alla "globalizzazione dell'indifferenza". Così si è espresso proprio ieri, a proposito della nostra relazione con l'Altro versione "straniero", nel ricordo delle vittime di povertà, insoddisfazione e sofferenza che tentano, spesso pagando con la propria vita, di approdare ad un mondo più confortevole: il nostro. Quindi io direi - ma non so il Papa - di quei "sottoconsumatori" con accessori determinati: differenza, intraducibilità ma anche fascinazione, inesperienza, sogni palsmati sul nostro modello e democraticamente venduti.
Oggi tutti i giornali fanno richiamo a quell'espressione usata dal pontefice. E Giuliano Ferrara ci dedica maggiore attenzione, scrivendo con cortesia a sua santità che forse, involontariamente, ha usato il termine sbagliato: perché la globalizzazione - dice l'Elefantino-puttana - è l'antidoto all'indifferenza. Ed in qualche modo ha pure ragione, non sapendo, come al solito, quello che dice.

Ad ogni modo, per quanto possa sociologizzarsi l'esperienza politica del Vaticano, non ci siamo ancora: Francesco dovrebbe sapere che da tempo si è cercato di definire la globalizzazione come "processo di mondializzazione di pratiche legate ad un modello politico particolare, quello capitalistico". L'indifferenza è già insita in questo processo, per altro con un significato diverso da quello che sembra voler comunicare lui. Essa si è accresciuta nel corso degli ultimi 30 anni proprio per l'aumento delle differenziazioni e poi per il crollo del significato dei confini, dell'idea di nazione, della cittadinanza nazionale, ma anche della comunità in generale; crolli dovuti principalmente alla globalizzazione, che ha avuto come conseguenza il comportamento tipico della "fortezza assediata", cioè di chi crea o marca le differenze. Una sorta di unione intesa a trovare qualche forma di certezza in una società ormai liquida, incerta, individualizzata, post-materiale. Tentativo piuttosto risibile, vaquo. Resistenza comprensibile storicamente ma destinata a breve vita. Adesso che ci si mette pure il Papa poi...

Il Papa che comunque non la dice tutta, o, peggio, la dice male: "globalizzazione dell'indifferenza": posto che abbiamo una linea guida interpretativa sul significato di globalizzazione, dobbiamo chiederci cosa sia questa indifferenza: in-differentia, senza differenze. Quindi un comportamento che non opera preferenze, non giudica o non riconosce le differenze, il quale, certamente, finisce con l'avere delle conseguenze politiche.
Supponendo che Francesco volesse usare l'espressione "mondializzazione" o molto più banalmente "diffusione mondiale sistematica" invece che l'inappropriato "globalizzazione", vorrebbe dire che si è compiuto un processo mondiale di annullamento delle differenze, o di mancato riconoscimento delle differenze. Questo fenomeno se è vero, è vero all'interno. Ma esiste ancora un esterno. Quindi non è quello il problema: semmai quel che ci interessa è che all'interno si è compiuto un processo di esplosione delle differenze, un loro aumento numerico esponenziale ed una maggiore esposizione ed accettazione che conduce, secondo la logica seguita da Jean Baudrillard, all'indifferenza; cosa che ha portato ciascun individuo, a causa dalla globalizzazione capitalistica, a sentirsi più incerto (in mezzo ad una moltitudine di modelli, e con l'obiettivo assegnato dal sistema, cioè autoattribuirsi un ruolo in società, farsi da sé, differenziarsi) e ha consentito agli Stati - pur di continuare ad avere un ruolo nell'ipermodernità - di marcare alcune differenze in difesa degli individui, all'esterno. Una "ri-differenziazione", insomma.

E nemmeno se si stesse parlando di indifferenza nei confronti delle sorti di queste persone potrei trovarmi in accordo: c'è la nascosta, più o meno velata, alle volte evidente volontà degli abitanti assediati di sbarazzarsi in tutti i modi possibili degli assedianti, unici nemici con cui prendersela... perché umani. Il capitalismo invece è un misto di idee, sentimenti, numeri... è astratto: molto più difficile opporvisi.
Anche qui,  dunque, non c'è indifferenza... per le sorti degli altri, non potendosi ritenere sufficiente la mancata determinazione o conoscenza delle conseguenze concrete del respingimento o della mancata accoglienza o del tentativo di fuga di ogni singolo immigrato per poter dire che si è indifferenti.

Ora, io direi così: siamo innanzi a trasformazioni sociali, favorite dalla globalizzazione del capitalismo, che hanno condotto a reazioni naturali del tessuto sociale ancora sottoposto alle categorie ideali della modernità che stanno per esaurirsi; queste reazioni, come la ricerca di nuove differenze, sono diretta conseguenza della individualizzazione, della proclamazione della presunta libertà di scelta dell'uomo-consumatore in luogo della responsabilità sociale e della lotta per l'autonomia, istanza non più opponibile. 
Direi che siamo semplicemente in piena globalizzazione, con tutte le sue conseguenze, e con l'aggravante che la tecnologia rende più veloce ed efficace, da un lato il processo di fascinazione nel confronti della società dei consumi da parte dei migranti di oggi, dall'altro l'impoverimento materiale e culturale delle terre di origine. 
Ma anche qui ci troviamo di fronte ad una rottura: probabilmente l'esplosione del mondo occidentale - per adesso solo ritardata - produrrà fenomeni di globalizzazione totalmente differenti, ed un mescolamento non più unidirezionale periferia->centro, ma la creazione di centri e periferie diffuse, o forse solo un più ristretto centro ed una periferia globale. Però credo sia presto per parlarne, e sono certo di non avere gli strumenti necessari per farlo. 

Per tornare al Papa, mi pare che il Corsera abbia tradotto pressapoco "no alla globalizzazione dell'odio". Espressione certamente più felice, almeno da una parte: perché l'odio, generalizzato, ha il pregio di essere espressione che si presta a meno equivoci, anche se non del tutto condivisibile. E tuttavia... odio nell'ambito della globalizzazione, non come suo oggetto.

Da Francesco mi aspetterei un no alla globalizzazione capitalistica, insomma. Ma come dimenticarci che lui, di lingua spagnola, argentino per mano dei conquistadores, è uno dei principali esempi della globalizzazione e che la Chiesa ne è addirittura uno dei principali protagonisti? L'evangelizzazione compiuta nel XVI sec. nel Sud America, è un fenomeno conciliabile e riconducibile alla diffusione del capitalismo. D'altronde i conquistadores oltre che servire Dio, avevano dichiarate intenzioni di arricchimento.

Ma aspetto la prossima puntata del Papa versione "social" per capire che piega sta prendendo la caduta della Chiesa come istituto secolare e modernizzato.

domenica 7 luglio 2013

Di tutte le morti, di tutti i suicidi.

Dispensami dal tempo al quale sei sfuggito
staccami da dentro la tua vicinanza
come le rose rosse all’imbrunire
si staccano dalla morbida unione delle cose


a giusto omaggio e ad amara voce
rinuncio lieto e al rosso delle labbra
combusto dal bagliore nero dei capelli
che purpurei ombreggiavano la fronte degli affanni


mi sia pure negata anche l’immagine
d’ira e di elogio come a me li offristi
l’incedere con cui portasti regalmente


il vessillo del quale leggi il simbolo
se solo in me il tuo sacro nome erigi
come amen infinito senza effigi.


W. Benjamin

martedì 25 giugno 2013

domenica 23 giugno 2013

Sono nato il 23, a primavera.

Mi ricordo il cielo di marzo. E quello di aprile.
Grigio, denso; anche dentro di me. Mi ricordo le nuvole, senza mai averle osservate sul serio. Grigio negli occhi.
La sensazione di una primavera che non arriva da sola, che ha bisogno di essere realizzata, coltivata. Una primavera quasi ipotetica, come un'utopia.
Mi ricordo quando, sotto quel cielo irreale dei primi giorni di aprile, chiesi aiuto alla terra, che grigia, argilla, chiedeva la forza dell'aratro dentro le mia braccia gracili. Ma non poteva capire, se non la chiamavo forte; più forte.
E con la rabbia, con l'unica mia vita possibile che scorreva a gocce dalla pelle, sporca d'inganni e ripulita col fango, andavo, nelle sere di quel ripetuto novembre, a piantare il seme, lottando. Con la madre terra, come quando fai l'amore e... non ci pensi.
La terra ci contiene tutti: densi o liquidi.

Seminare il cambiamento di stagione, della propria esistenza. Seminare la fiducia nella vita, che procede, se è bagnata, pure nell'argilla o nel deserto. E non essere ginestra, per dio. Ma prendere il fiore ubriaco, sbandato di acqua e di sole, e farne ragione di occhi da inventare. Nuovi.
Non la ginestra, per carità, quale grazia sarebbe essere deserto. Sono umido ivece; sono zuppo e fin troppo compatto; e ora risoluto a far nascere giallo il colore della bandiera di rivolta.

Nacqui il giorno 23 - l'estate umana appena sedutasi oltre il recinto - come immagino possa nascere un fiore che sa solo d'esser fiore: non il migliore, non il meritevole, non il competitore; non l'ospite (schiavo) d'un giardino. Piuttosto il figlio di una natura libera e autodeterminata. Casuale e logica allo stesso tempo.

Ma ho sperimentato che dal momento della nascita ogni nostro atto è di prepotenza; anche innoqua, anche innocente. Ed è forse ancora la prepotenza di un riscatto dal grigio e la volontà di un'esplosione giallo-terra-simbolo umano che mi ha spinto a coltivare, con dedizione vera, una direzione opposta all'amore chiamato in causa e offeso dalla privazione nutritiva; di una terra allontanata, di una semplicità offuscata.

E 25 sono gli anni del fiore che zappa la terra per piantare altri fiori, come se non gli bastasse. Un fiore senza dimensioni comprensibili. Un fiore che sfugge spesso alla terra. Un fiore di quelli che non si raccontano; nemmeno fiore di campo.

E mi ricordo parole che non servivano, dolori che rendevano piccola questa corolla di fiducia e di speranza.
Come non esiste il fiore dentro la scatola, strappato alla terra, ornamento di un nulla così sofisticato da sembrare tutto, così non esiste verità presso chi ruba i colori fingendo di liberarli.
Adesso non ci sono ladri; solo primaverili insignificanti comparse dentro al recinto, e tutto il testo fuori. Da me.


Non so più cose sto dicendo e m'è venuto sonno; ma questi sono i miei girasoli.



giovedì 18 aprile 2013

Riflessioni sulla libertà, parte 1

Premessa

Le culture occidentali (l'uso del plurale non è casuale e spero possa essere colto da subito; ma emergerà certamente più avanti), sedimenti dei processi storici e sociali dei popoli di quelle terre incluse, dalla dottrina e dalla politica, nel novero dell'Occidente relativo, sono all'opera, si trasformano e trasformano l'immaginario in qualsiasi momento della nostra vita da occidentali: anche quando tuoniamo contro questa stessa vita, contro queste stesse culture. Da ciò deriva che il nostro pensiero, le nostre opposizioni, il nostro approccio dicotomico bene/male oppure il nostro assoluto relativismo strumentale relativo ai casi ed al contesto che ci interessa, siano frutto di quella tradizione che genera anche l'oggetto della nostra opposizione. Perché, non è una novità, oggetto e soggetto vengono generati contemporaneamente, in un determinato immaginario.
Sulla libertà anch'io scriverò in opposizione a determinati modelli; i quali, tuttavia, hanno generato la mia stessa opposizione. Così quest'ultima finisce con esserne la prosecuzione storica. In tutti i casi che andrò ad analizzare sarà evidente, anche quando operata con incoscienza, la pienezza della mia storicità, della mia appartenenza.
Inutile, da qui in avanti, tentare di fingersi l'accademico puntiglioso: non lo sono e non ne sarò mai capace. Piuttosto porrò delle questioni nel mio modo personale, che è storico e culturale, senza pretesa di scientificità, ma con un metodo che, per quanto non sia oggettivo, resterà sempre un metodo umano.

Brevemente, voglio essere antipatico: troppo spesso ci riempiamo la bocca della parola libertà; ancora più spesso è capitato al sottoscritto di ascoltare giudizi sulla libertà altrui; sulle carenze o la mancanza di libertà di qualche individuo o di gruppi di individui. E frequentemente persino il sottoscritto li ha pronuciati.
Ebbene, la presunzione di sentire se stessi "più liberi" di altri è un abominio, una forma di prevaricazione sociale e morale. E, se non ce ne fossimo accorti, sancisce l'inesistenza di quella stessa libertà proclamata e idealizzata. Nessuno è libero; oppure tutti sono liberi a modo loro, nel contesto della loro storicità e della loro cultura. Decidiamoci.

Non esiste una libertà autentica, univoca, assoluta. L'idea stessa di libertà e l'uso della parola sono fatti storici e culturali; e, francamente, è comprensibile pensare che la libertà, di per sé, non esista. Ci sono piuttosto tante possibili libertà contingenti: ciascuna di esse, da quando viene affermata, proclamata e perseguita, diviene una forma di prevaricazione, di subordinazione culturale. La dimostrazione stessa della sua inesistenza, forse.

Riaprire eterni dibattiti

Caso 1: la libertà sentimentale e sessuale, in breve.

Qualche secolo fa si pensava come atto di libertà, ad esempio, la possibilità di avere un lavoro ben remunerato che offrisse l'occasione di costruire una famiglia ed una bella casa con un portone ed una chiave sicura, per custodire la nostra dimensione privata e le nostre contraddizioni.
Altra espressione di libertà, ricadente nello stesso immaginario, era la possibilità di sfuggire all'autoritariusmo pateralistico ed alla dimensione protettiva della famiglia patriarcale, e prendere per marito (o moglie) chi si ritenesse più opportuno, anche contro l'opinione del padre. La libertà di sposarsi come si vuole e con chi si vuole.
Penso a quella espressione: oggi molti tra i lettori di questo scritto la riterranno, come me, un'espressione probabilmente ossimorica: "Libertà... di sposarsi". Eppure al tempo aveva il peso di una vera richiesta di libertà.

Charles Bukowski. In qualche modo è un sollievo leggere quel suo persiero violento, "animale", senza peli sulla lingua. Giustificatorio. Diciamo: "libero". "Libertà!"; "Siamo animali, dobbiamo privarci delle catene".

La libertà sessuale comunemente intesa è una cosa sensata, come sensato è stato il nazismo del resto. Tutte le cose sono sensate. Però anch'essa è un prodotto culturale; e non è giusta in assoluto.
Essa è cosa ben diversa dalla liberazione dei generi sessuali, argomento più serio, ma indissolubilmente connesso a quello che io pongo qui brevemente.

Tutta la modernità si è sviiluppata sull'istituto della "famiglia"; e all'interno della società così formata, all'interno del modello familiare, è nata, per opposizione, la riluttanza contro la famiglia stessa.
L'idea di una potenziale società senza legami stabili, secondo me, significa il capovolgimento assoluto dello stato sociale, della cultura che ha generato la nostra stessa possibilità di pensare questo rovesciamento; e, ad ogni modo, è certamente la fine di un immaginario e la creazione di un altro, nell'ambito degli sviluppi culturali delle nostre società.
L'immaginario sviluppatosi nel corso della modernità, dell'uomo che trasformava e piegava la Natura per garantire il proprio predominio, attraverso l'uso dell Ragione, sulle altre forme di vita e contro i rischi di morte naturale, e dell'individualismo razionale inventato, come inventato era il libero arbitrio storico, pare in contrapposizione con l'idea di esseri umani totalmente istintivi e per questo liberi. Se la ragione esiste, ed è quello che abbiamo sempre pensato, dire oggi che essa produca una libertà "più vera" di quelle precedenti è una contraddizione. Perché la produrrebbe oggi? Esiste, allora, il progresso? E se esiste il progresso, e l'individualismo capitalistico ci sta portanto adesso al bellum omnia contra omnes, i diritti civili, sociali ed individuali guadagnati non serviranno più (e mi sta bene); ma cadranno anche tutte le idee, persino di libertà, per fare spazio non di certo ad una società anarchica (anche questo pensiero è frutto della Ragione, e funziona per opposizione). Temo, piuttosto, che gli uomini rifaranno un percorso simile a quello già fatto, se non nei contenuti... nei principi: di organizzazione, di gestione, di controllo.

Come non pensare la libertà sessuale di oggi, sbandierata e difesa politicamente, anche quale complemento oggetto del consumismo?
Tutta l'attenzione spostata non sulla sessualità, ma sul sesso; privandolo però della sua funzione primaria: quella procreativa. Eh si: perché bisogna tornare animali e non attenzionare troppo le cazzate sull'amore, sui legami stabili (odiosi immaginari che riducono le nostre libertà), ma anche dimenticarci che la Ragione che ha prodotto quegli immaginari, produce allo stesso modo quello per il quale il sesso si può vivere "liberamente" e giustamente anche senza procreare.
L'istinto è quello che ci porta a compiere l'atto sessuale; la Ragione, il fatto culturale, l'antropocentrismo sono invece evidenti nell'inibire la procreazione. E' un calcolo; il calcolo risponde ad una forma e la forma è l'immaginario.
Ma l'immaginario come si è creato?
Per intanto possiamo dire che è si creato.
A questo punto... cos'è questa libertà sessuale? Un dato morale assoluto?
Non parrebbe.

Ma... siete retrogradi se pensate che sia sbagliato fare sesso senza procreare. Sappiatelo. I custodi della libertà vi deridono, poveretti. Poveri schiavi.
I più geniali sono quelli che fanno uso di anticoncezionali ed al contempo mettono in discussione la "naturalità" dell'omosessualità. Mistero della fede.

Seriamente, io credo che scopare piaccia a tutti noi, soprattutto quando si tratta di un'avventura erotica imprevista. Ma il patentino per ritenerci liberi, e per bollare chi ha una relazione stabile - e ci crede - come un/una "poveraccio/a", chi ce lo ha dato? E se fossi noi in torto? E se questa libertà di fare sesso come e quando vogliamo senza conseguenze fosse la peggiore delle aberrazioni umane, che ci allontana dalla (per noi, a volte) conveniente naturalezza degli animali per consegnarci, ancora una volta, una scelta umana, di quelle come ce ne sono tante? Ma soprattutto ci siamo chiesti perché ci piaccia in modo così ossessivo fare sesso? Il punto è che l'instinto che ci porta a compiere l'atto sessuale è l'istinto di vita: di generare, di creare vita attraverso l'unione dei due corpi. Ed il piacere forse autentico dovrebbe essere proprio questo impulso procreativo. Ma questo piacere è stato limitato nel tempo; condizionato. Controllato politicamente e appannato per ragioni dettate dalla mente umana, secondo immaginari determinati della vita e del mondo.

Ora, il rischio di essere fraintesi è alto: io ho intenzione, almeno per adesso, di rinunciare allo stesso modello culturale ed allo stesso immaginario al quale quasi tutti noi abbiamo aderito. Dico soltanto che riflettere su tutto ciò che noi riteniamo libertà e scoprire che libertà non è, è un atto dovuto. Soprattutto per approcciarci agli altri.
E ancora: questa riflessione particolare è finalizzata a cancellare qualche ipocrisia sul sesso che noi praticanti di questa religione adottiamo spesso. Se è facile e bello scopare, questa cosa, impedendo la proceazione, non è certamente un'espressione libera svincolata dalla Ragione, come si pensa ogni volta che si grida "libertà". E dunque non si capisce perché altri immaginari creati dalla medesima Ragione siano privi di libertà. Solo questo.

Così, in fine, potremmo dire che è naturale e liberale (se la libertà non è un assoluto, nel senso che di solito si gradisce, salvo confondersi) tanto un modello di relazioni instabili, quanto un modello di relazioni stabili; tanto l'amore come ricerca di eternità e impegno a costruire, quanto l'amore come sfogo di tensioni ed emozioni istantanee.
Va bene tutto insomma. Guccini direbbe: "Ma non raccontare a me che cos'è la libertà".

venerdì 22 marzo 2013

Per rifiutare la paura di cambiare.


LA NOSTRA SICILIA, IL NOSTRO MONDO:
UNA TERRA DI PACE, DI ACCOGLIENZA, DI SVILUPPO SOSTENIBILE, DI OPEROSITÀ, DI RESPONSABILITÀ CONDIVISE E DI GIUSTIZIA.

Questo è quello che abbiamo in mente. Questo è l'impegno che assumiamo con le nostre singole esistenze: stare al mondo e vivere tutta una vita, dai piccoli gesti della quotidianità alle grande azioni collettive, per affermare il bisogno di essere migliori. Tutti quanti. Dare un senso alla nostra esistenza nella ricerca di un destino comune del mondo. Farlo davvero, senza più i vecchi riti della politica, gli egoismi della nostra vita individualizzata, la paura di cambiare che ciascuno di noi coltiva inconsciamente dentro di sé, non per il timore che la strada sia sbagliata ma perché spesso il cambiamento appare come una privazione; come la perdita di una posizione sociale.
Bisogna domandarsi se le nostre vite, spesso imperniate attorno a riti di consumo e alla convinzione che la verità sia una sola, non sarebbero migliori stringendo un nuovo patto e superando insieme la paura di un cambiamento; tentando di affermare una nuova etica e un pensiero differente; o meglio una pluralità di pensieri. Uscire dalle forme attuali, cerarne di nuove.
Questa vita che viviamo è la migliore che possiamo?
La crisi economica di cui tanto si è parlato non nasce nel 2008, viene da lontano: da quando l'uomo è diventato degno della sua umanità solo se considerato in termini economici; e poi da quando l'economia è diventata carta e bytes, scavalcando l'uomo stesso. Cosa che ci ha condotti a vivere delle vite al di sopra delle nostre possibilità – “vite che non possiamo permetterci”, direbbe Bauman – ed ha generato solo grandi disuguaglianze. Purtroppo è vero quel dato spesso preso sottogamba - o considerato secondario rispetto ai vari PIL, PNL, spread etc. – per cui, secondo il più recente “Global Wealth Report” di Credit Suisse, lo 0,5% di persone più ricche controlla più del 35% della ricchezza mondiale. Questo significa gravissimi squilibri ed una vera e propria contrapposizione tra popoli, non tanto per la sopravvivenza, quanto per il predominio culturale. E questa cultura, che ci ha condotto alla colonizzazione del mondo, all'assoggettamento e alla riduzione delle differenze dei popoli, dei gruppi sociali, al dominio ed alla manipolazione del creato a forma umana, è quella che alla fine si ritorce contro noi stessi.
Le privazioni immateriali, sociali - la crescente insicurezza, le ansie, le accentuate patologie psichiche oltre all'emergere di nuove e spaventose incidenze tumorali - si aggiungono alle sempre più forti privazioni materiali dei popoli dell'occidente. La distruzione di buona parte del patrimonio naturale, la compromissioni della salute degli ecosistemi, l'inquinamento, il sovrappopolamento, l'aver ridotto il pianeta ad un posto meno sicuro e poco accogliente per gli altri esseri viventi, ridotti a complemento del nostro dominio umano, tutto questo, è da cambiare. E lo si cambia cominciando a pretenderlo. Lo si pretenda in Sicilia, lo si pretenda in Italia, lo si chieda agli altri popoli del mondo. Non è una questione di riforme possibili né di legislazione: è innanzitutto l'inversione di un paradigma sociale e culturale, che si può raggiungere, gradualmente, cominciando ad affermarla dentro di noi. Pensare e soprattutto vivere la propria vita in modo nuovo è la chiave di ogni possibile cambiamento: l'inversione di quel paradigma, presso un numero sempre maggiore di persone, porta alla necessità di una vita diversa. Quindi tutto quello che dobbiamo fare, ancora prima di pensare di doverci affidare al voto politico e amministrativo, è non smettere di pretendere ciò che si ha a cuore: una trasformazione complessiva del mondo.
Bisogna smettere, piuttosto, di credere che l'importante sia condurre l'amministrazione tecnica delle forme dell'organizzazione sociale odierna. Bisogna smettere di credere che i discorsi più grandi del nostro piccolo orticello siano inutili e risibili. Bisogna sentire nelle proprie vene le offese che questa società planetaria fa alla vita: a quella degli altri ed alla nostra.
La Sicilia rifiuti le logiche di una modernità ormai al tramonto, come l'affermazione di una politica nazionalista sicilianista che rientra nella vecchia logica riscontrabile nella dicotomia amico/nemico. Recuperi, piuttosto, quello che di buono è sempre stata: una terra di pluralità, di differenze, di accoglienza, di amore per la terra, per l'operosità. La Sicilia del 2013 non deve essere una nazione, ma una nuova forma di comunità: che integra, senza annullare, le differenze di ciascun umano venuto a cercare qui la propria vita. E sia allora una terra di vita e non una terra che minaccia la morte, che ne accoglie la prospettiva.
A partire da tutte queste considerazioni, si può giungere al recupero della dignità di ciascuno e ad una nuova affermazione della capacità decisoria dei cittadini, contro le politiche eterodirette dalla cultura di potenza e di prevaricazione, che invocano la guerra tra popoli, e impersonate dai governi delle grandi potenze mondiali e dalle logiche dell'espansione economica. Insomma: si può dire basta alla guerra che insegue interessi economici a danno di qualcun altro. Si può dire, si più chiedere, si può pretendere. E la cosa non è affatto risibile. E' risibile il non avere mai pensato di farlo sul serio. E' risibile la nostra rinuncia davanti a quello che sappiamo essere una cosa giusta. Siamo noi stessi ad essere risibili quando scegliamo di non prendere posizione.
Un mondo migliore, noi, lo vogliamo affermare a partire dalla resurrezione di un popolo. Quel popolo che il 30 marzo si ritroverà a Niscemi (CL) per dire che non abbiamo bisogno di antenne militari statunitensi, che servono a controllare e comunicare ipotesi di morte, occupando le terre di chi, invece, vorrebbe coltivare la vita. E' il popolo che non vuole rischiare di ammalarsi di morte, persino nell'altro senso, molto meno metaforico, della salute dei siciliani.



Il 30 marzo a Niscemi per dire NO al MUOS.
Si tratta di un sistema di 3 antenne satellitari del diametro di 18,4 m, funzionanti in banda Ka per le trasmissioni verso i satelliti e di 2 trasmettitori elicoidali in banda UHF di 149 metri d’altezza, per il posizionamento geografico. Il sistema è finalizzato al controllo di operazioni militari altamente tecnologiche. Scrive Antonio Mazzeo, giornalista e pacifista messinese: "il nuovo sistema di telecomunicazioni dovrà assicurare il collegamento della rete militare Usa (centri di comando, controllo e logistici, le migliaia di utenti mobili come cacciabombardieri, unità navali, sommergibili, reparti operativi, missili Cruise, aerei senza pilota, ecc.), decuplicando la velocità e la quantità delle informazioni trasmesse nell’unità di tempo e rendendo sempre più automatizzati e disumanizzati i conflitti del XXI secolo. Con la conseguenza di accrescere sempre più il rischio di guerra (convenzionale, batteriologica, chimica e/o nucleare) anche per un mero errore di elaborazione da parte dei computer".
 
Il Muos - inizialmente previsto all'interno della base militare di Comiso e spostato a seguito di uno studio statunitense che ha certificato possibili e gravi interferenze con le apparecchiature militari e gli ordigni presenti in loco - dovrebbe essere realizzato nella base NRTF-8 (Naval Radio Transmitter Facility) di Niscemi, presso la Riserva naturale orientata “Sugherata”.
I lavori, iniziati da tempo, sono stati interrotti - per la seconda volta - grazie ad un accordo tra il governo regionale di Crocetta e il governo della Repubblica, datato 11 marzo 2013, il quale ha sottoposto l'eventuale nuovo via libera alla costruzione al rilascio di un parere favorevole da parte dell'Istituto Superiore di Sanità e dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, in merito ai rischi legati alle emissioni elettromagnetiche.
Col tempo - la vicenda si protrae dal 2006, anno della ratifica dell'accordo bilaterale tra Italia ed Usa -, sono emersi molteplici dubbi sui rischi per la salute della popolazione, già interessata da forte inquinamento elettromagnetico per la presenza di 41 antenne all'interno della base militare, le quali potrebbero essere causa dell'aumento dell'incidenza tumorale registrata in quella zona.
Nel 2011, uno studio condotto dai professori Massimo Zucchetti e Massimo Coraddu del politecnico di Torino, mette in evidenza alcune importanti lacune dello studio realizzato dall'ARPA Sicilia per il rilascio delle autorizzazioni da parte del governo regionale. In particolare, i docenti mettono in luce degli errori di misurazione, l'utilizzo di strumentazione inadeguata e l'assenza di specifiche tecniche dettagliate sul Muos, coperte dal segreto militare statunitense. Questa situazione, e le nuove misure prodotte da Zucchetti e Coraddu, rivelerebbero una potenziale situazione di rischio per la salute sotto due differenti aspetti: l'eventuale errore di puntamento delle antenne; e l'esposizione prolungata ad un campo elettromagnetico di potenza elevata.
La tesi dei docenti del politecnico si accompagna alle considerazioni, esposte più volte da Zucchetti, che le nuovissime pubblicazioni e gli studi sull'incidenza dell'elettromagnetismo impongono oggi di dare maggiore attenzione al problema, e di verificare la reale necessità di realizzare un'opera come il Muos in Sicilia. Ma noi non vogliamo fermarci a queste considerazioni.
La nuova situazione creata dall'accordo dell'11 marzo scorso, infatti, è lungi dall'essere una vittoria: in primo luogo esiste la contrarietà politica e morale (la ricerca di quel mondo migliore di cui abbiamo detto e la difesa della terra come luogo di vita e di bellezza), facilmente messa in secondo piano centrando tutta l'attenzione sulla questione della salute; e, soprattutto, in riferimento proprio alla salute, non è da escludere che, a norma di legge e stante il probabile mantenimento del segreto sulle specifiche tecniche del Muos, possa arrivare un parere positivo da parte degli enti citati nell'accordo. Chi, per altro, può dire quali saranno le frequenze e la potenza reali con le quali opererà il sistema quando sarà in funzione? E chi può escludere un'ingerenza degli Stati Uniti nel giudizio da quegli enti?
Di recente, per altro, dalle dichiarazioni rilasciate alla Procura di Napoli dall'ex senatore Sergio De Gregorio - passato dall'Idv al Pdl per far cadere il governo Prodi nel 2008 - emergerebbero ipotesi inquietanti: ed esempio, l'interesse e le pressioni della CIA (i servizi segreti Usa) per la fine dell'esperienza di quel governo, inviso agli americani per un atteggiamento freddo e ostile su alcune tematiche tra le quali quella del Muos.

La mobilitazione contro la realizzazione di quest'opera si è fatta particolarmente importante negli ultimi due anni, finendo per porre la questione come tema politico dirimente. Ed il 30 marzo, a Niscemi, verrà ribadita la contrarietà alla realizzazione del Muos sotto tutti i punti di vista, cioè quello politico-morale e quello della tutela della salute e dell'ambiente; i quali, per altro, finiscono per essere l'uno il brodo di coltura dell'altro. 


Sebastian Recupero

mercoledì 6 marzo 2013

Vento dal Venezuela

Nel vento cerco spesso voci e suoni; grida e canti; storie che vengono a spezzare la nostra quiete, sbattute lì nella prima pagina della nostra faccia. 
Stasera, tra le altre cose, ci sento la morte di Hugo Chavez, la sua storia, le sue mille contraddizioni; la voce incerta del Venezuela che verrà.

Volevo scrivere qualche considerazione su tutto questo, ma la verità è che non ho molte parole. Probabilmente devo ancora decifrare la situazione, la storia, il senso ultimo di quello che è stata l'esperienza neobolivarista di Chavez. Forse non ne so proprio molto. E nessuno forse ne sa molto, tranne chi l'ha vissuta dalla parte del popolo e non del potere. 
Ma sento di potermi sbilanciare quantomeno in un pensiero semplice. Il Venezuela di Chavez rappresentava, come tante altre piccole grandi storie politiche, l'idea che si potesse spezzare il monopolio economio e culturale occidentale e statunitense. Non importa che il prezzo pagato per questa opposizione si stato quello di un paese mai veramente socialista, mai veramente egualitario, trasparente, giusto. O meglio: importa, ma non al punto tale da servire quale riconoscimento della bontà del modello di sviluppo liberista e neoliberista. Non a dimostrarci che la democrazia occidentale fa meno morti e rende più felici i suoi cittadini. Perché questa non è la verità. Perché non c'è una verità. 
Troppe contraddizioni e troppi abusi questo Chavez. Ma mai abbastanza per salvare la storia imperialista dei suo nemici, il loro sistema economico e sociale. Le loro anime consumiste e consumate. 
Io non voglio salvarlo, tantomeno lodarlo. Io voglio salvare l'idea... e rinnovarla. L'idea magari tradita dallo stesso ex presidente e dai suoi; condizionata dal difficile quadro della globalizzazione; offesa dal militarismo, dalla divisione dei posti di potere. Ma l'idea che, prima di passare alle mani di uomini che la interpretano nella contingenza, nasce nel cuore e della mente di altri uomini che semplicemente provano emozione e passione nel sognare un mondo diverso.
Ecco: l'idea di un mondo diverso; socialista senza riferimenti storici: aggettivo positivo incolore e sentimento di solidarietà e reciprocità. Questa idea sorpassa Chavez e non potrà mai essere spazzata via. 
I governi invece si che passano, che vengono cancellati. E quel che rimane di questo governo bolivarista, prima o poi, verrà cancellato del tutto. Non è un male: la gente ha bisogno di cambiare; di ripartire. Quello che, però, mi dispiace è che noi occidentali non abbiamo mai smesso di essere dei fondamentalisti culturali; che in queste ore stiamo tutti rincorrendo i nostri dizionari e le nostre enciclopedie per raccontare di quanto il Venezuela non fosse un paese "libero"; di quanto mancasse la "democrazia". Senza mai una volta accettare la possibiltà di declinare diversamente queste parole: libertà e democrazia. 
E certamente siamo liberi: di produrre, consumare, credere in un Dio (anche terrestre, razionale) e crepare. Ed abbiamo il potere di eleggere rappresentanti che non possono far altro che garantire che quel principio di libertà si riproduca all'infinito: farci produrre, farci consumare, farci credere in un Dio e lasciarci crepare. Ma allora... dovremmo forse dire che siamo vincolati dalla nostra stessa libertà alla più abberrante delle dittature: quella meccanica dei processi produttivi e di consumo finalizzati dell'arricchimento immorale ma legittimato. E vorremmo giudicare gli altri? Se ne abbiamo ancora facoltà, con tutta la nostra disinvolutura (che comincia a scricchiolare, forse), è perché le nazioni in cui viviamo controllano militarmente e finanziariamente il mondo per difendere questo sistema, concedendoci lo spazio per crederci nel giusto. Per affermare che "stiamo bene; il nostro sistema funziona". Per non far esplodere quelle contraddizioni che la notte addormentiamo con noi; e che ci confondono i sogni.

Soffia il vento dal Venezuela stanotte: un'altra storia di minoranza, di contrarietà, di opposizione ha le ore contate. Ma suona alle nostre finestre la voce mai spenta del socialismo, di un mondo più giusto che forse non verrà mai, ma vivrà per sempre nei tentativi e nei fallimenti delle donne e degli uomini che hanno saputo scegliere la strada più difficile.

martedì 26 febbraio 2013

lunedì 25 febbraio 2013

...

 "CRETINISMO PARLAMENTARE:

infermità che riempie gli sfortunati che ne sono vittime della convinzione solenne che tutto il mondo, la sua storia e il suo avvenire, sono retti e determinati dalla maggioranza dei voti di quel particolare consesso rappresentativo che ha l'onore di annoverarli tra i suoi membri, e che qualsiasi cosa accada fuori delle pareti di questo edificio, - guerre, rivoluzioni, costruzioni di ferrovie, colonizzazione di interi nuovi continenti, scoperta dell'oro di California, canali dell'America centrale, eserciti russi, e tutto quanto ancora può in qualsiasi modo pretendere di esercitare un'influenza sui destini dell'umanità,- non conta nulla in confronto con gli eventi incommensurabili legati all'importante questione, qualunque essa sia, che in quel momento occupa l'attenzione dell'onorevole loro assemblea".
Friedrich Engels, Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, 27 luglio 1852

Sul parlamentarismo, anche senza attualizzare troppo, potremmo percorrere due vie. La prima è una critica verso la fiducia totale che viene riposta nell'istituto in oggetto, la quale offusca l'orizzonte più concreto della politica e dell'azione politica, senza però inibire la legittimità e l'utilità di operare anche sul fronte elettorale; la seconda è che tale istituto allontana matematicamente dagli altri orizzonti dell'azione politica - finendo per fagocitare anche l'azione esterna - e che quindi debba essere delegittimato. 
Io ho scelto la seconda; ma ritengo comunque accettabile la scelta di chi vuole, ancora una volta, partecipare al voto in buona fede e con propositi seriamente riformistici. Tuttavia non posso nascondere la mia riluttanza per questo meccanismo falsamente rappresentativo e falsamente democratico; ed infatti non l'ho mai fatto. Per me chi vota con una coscienza politica profonda o con un trasporto ideale intenso - anche se per me mal spesi - non è cretino. Cretino è, semmai, chi vota perché "difende il diritto al voto duramente conquistato" e basta (odio questa cazzo di retorica borghese sulle conquiste); oppure chi vota perché crede che la politica si giochi tutta lì; o ancora chi vota perché si lascia trasportare dagli altri, mentre non risponde ad alcun senso di partecipazione profondo.

Colgo l'occasione per ribadire la mia proposta: la costruzione (parallela allo Stato) di un movimento-apparato dei popoli, a livello internazionale ma che parta dai territori, volto a delegittimare le istituzioni e gli istituti tradizionali, al fine di riacquistare la sovranità ceduta alle leggi di mercato. Allo stesso tempo, però, questa organizzazione deve concordare un disegno, solido, della politica internazionale da realizzare, opposto a quello che ci portiamo dietro almeno da cinque secoli. Detta così sembra difficile. Ed in effetti lo è! Ma adesso è il tempo di decidere se vogliamo davvero cambiare qualcosa - ed allora bisognerà fare qualche sforzo! - oppure se fermarci al livello del microconflitto e della retorica ancora a lungo.

giovedì 21 febbraio 2013

Dedicato

Dedicato a chi oggi pubblica scandalizzato la foto di Mauro Aquino insieme a Silvio Berlusconi, mentre alle scorse amministative s'è fatto i cazzi propri. E che anzi, a parte facebook, continua a farseli.
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"Un futuro che, torno a dire, deve essere inquadrato ideologicamente in modo più forte, anche in contrapposizione con i modelli di sviluppo, o con i metodi, che si sono predicati altrove. A questo proprosito, costruire una nuova identità della nostro comune partendo da quello che ci hanno lasciato i nostri avi, ci consentirà di trovare un equlibrio e uno stile di vita tutto nostro, particolare e anche affascinante. Affascinate perché la prospettiva da inseguire non dovrà essere l'omologazione ad altre città e ad altre realtà , ma la diversità.

Per questo, e per il fallimento del modello economico e culturale capitalistico, reputo delle idiozie le economie basate sul cemento fini a loro stesse; i centri commerciali che siano tempio del consumo e che, dopo aver ucciso la rete del micro commercio cittadino, andranno in fallimento; i porti che non si sa bene, al di là del solito discorso facilotto sulle isole eolie, chi debbano portare e perché; le carceri come fonte di economia per una città; e tutto quanto ci sia di affine.

Detto ciò, andiamo oltre. Tanto si sa che "sono lungo".
Voglio ripartire da questo assunto: Gullo e Venuto non sono il problema, ma la conseguenza del problema.
Quindi stiamo cercando qualcosa più profondo. Qualcosa che, in fine, ha a che vedere con la nostre virtù civiche. Infatti, se tutti noi cittadini pattesi fossimo dei virtuosi della civitas (e credessimo nelle istituzioni... che chiamiamo in causa solo per qualche danno che ne riceviamo) innazitutto non accetteremmo di essere pagati per votare questa o quella persona: è sintomo di subalternità ai gruppi di potere e non di furbizia. In oltre ci idigneremmo: perché la città è sporcata da concittadini incivili e le istituzioni non provvedono a redarguire nessuno; perché le nostre spiagge sono sporche; perché in mare ci finiscono fogne abusive; perché ci sono discariche nei nostri torrenti; perché al comune non ci forniscono i documenti che ci servono in tempi brevi; perché in Consiglio comunale ci vanno persone che a volte non capiscono nemmeno di cosa si parli o che non sono mai intervenute su nessun tema perchè incapaci e analfabeti; perché i beni pubblici di utilità e quelli artistici vengono abbandonati a loro stessi; perché forse esiste la possibilità di farsi annullare una contravvenzione; perché l'unico servizio sul quale si doveva spingere di più a Patti è il Liceo scientifico (mentre aumentava il suo numero di iscritti) e invece non si è fatto; perché si è costruito ovunque, e a dismisura, facendo gli interessi della massoneria e dei costruttori e deturpando irreversibilmente l'ambiente; perché c'è una cazzo di concattedrale verde a forma di pattumiera e nessuno sa a che cosa serve realmente; perché si conferiscono cittadinanze onorarie a volte in modo ambiguo e a volte senza cognizione di causa a personaggi dubbi o comunque irrilevanti per la città, i suoi sentimenti e la sua costruenda identità; perché un sindaco così...davvero non si può. E tante altre cose.
[...]
E poi però ci sono quelli che vogliono "cambiare": perché è giusto, perché "adesso basta", perché "non ficiuru nenti", perché si può fare questo, quello e quell'altro. Ma, nella sostanza, come intendono cambiare? Andando ancora una volta a portare il consenso ai sistemi di potere che hanno generato i mali della società odierna, in modo più o meno evidente?
"Cambiamo", dicono in molti: ma dovremmo cambiare davvero, non solo con le intenzioni e proponendo la nostra alterità come la cosa sicuramente migliore. La soluzione, a volte, rischia di essere peggiore del male. Noi rischiamo di essere peggiori di Gullo, se non ci decidiamo per un cambiamento complessivo nel metodo, nei contenuti di fondo (e non sono nelle applicazioni superficiali), nella direzione e anche nei nomi della gente con la quale si ha a che fare.

Io detesto chi è amico di tutti. Non si può essere amici di tutti. Figuartevi come detesti chi pensa che la politica sia univoca e che le azioni politiche possano essere condivise nello stesso modo da tutti. Non esiste una "politica del fare": è una finzione post-ideologica e berlusconiana. Esiste la politica. Punto.
Molti nuovi gruppi contro Gullo e Venuto parlano di clientelismo solo adesso (all'improvviso è il tema giusto per buttare giù dal cavallo quelli che per ora comandano) -  comunque dico "finalmente!"- e si adoperano nel citare quello che l'amministrazione poteva fare e non ha fatto. Ma cazzo, non basta.
Ma chi è il cambiamento? quelli che hanno la tessera dei partiti che hanno sperperato (e intascato) i soldi nell'ATO ME 2?
Quelli che hanno la tessera del partito che ha creato gli ATO?
Quelli che hanno la tessera di partito degli stessi politici che hanno piazzato i loro uomini negli ospedali?
Quelli che hanno la tessera del partito che ha distrutto questa regione e questa provincia?
Quelli che hanno la stessa tessera di partito di chi non ci hanno fatto realizzare il Liceo di Patti?
Quelli che hanno la tessera di partito dei mafiosi condannati a 7 anni per mafia?
Quelli che hanno la stessa tessera dei partiti che hanno fatto clientela e assistenzialismo con minor forza qui in città, ma con più forza negli altri enti e paesi?
Quelli che vi hanno fatto fare il corso di formazione, istituito ad hoc?
Quelli che organizzano le sagre e le feste per dare la parvenza di amare la città?
Quelli che vi volevano privatizzare la gestione del servizio idrico?!!
Quelli che sono inseriti nei sistemi di poteri a tutti i livelli?
Quelli che prima sono stati eletti per stare in un sistema di potere, con i metodi di chi è eletto per clientela, e poi fanno gli oppositori solo per divisioni interne??

Questo è il cambiamento?

Allora, mi rivolgo a tutti i pattesi che stanno, in questi giorni, preprandano le proprie liste ed i propri programmi: cercate di capire fino in fondo quello che state facendo e dove state andando!"
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Il brano tratto da un mio articolo del 29 gennaio 2011, pubblicato su questo blog.
Mi scuso solo per la grammatica, un po' grezza. E perché al tempo credevo ancora che votare fosse importante. Ma tutto è conseguenziale.

mercoledì 20 febbraio 2013

Il voto inutile

Quando si comincia a parlare di voto utile - ed in Italia avviene già da diversi anni - si arriva al compimento della storia: è il tempo nel quale il voto è diventato, di per sé, inutile. 

Continuare ad eleggere un Parlamento esautorato della sua sovranità dalle leggi del mercato e della finanza, dagli accordi internazionali e dal mutato scenario culturale del mondo globalizzato, significa, infatti, partecipare alla parodia di una democrazia. Perché, pensandoci, solo di una parodia si tratta.

La richiesta di un voto utile ci consegna una realtà dei fatti che spesso non sappiamo leggere per bene. E bisogna chiedersi se l'utilità quale principio semplificatore sia stato tirata fuori dal cilindro per puro caso o meno.
Non è certamente un caso.
Quello che ci è sfuggito è che il mondo è cambiato, mentre le istituzioni politiche sono rimaste pressoché uguali a quelle di 100 anni fa. Eppure noi umani negli ultimi 30 anni abbiamo fatto (e in parte subito) una rivoluzione tecnologica spaventosa. Ma come mai le istituzioni e gli istituti moderni sono rimasti in piedi?
Proprio perché non contano più nulla.
Perché  sulla catena semovente ci siamo saliti anche noi; e siamo stati montati pezzo per pezzo;  abituati ad esser venduti e a venderci.
Perché, dopo la seconda guerra mondiale, mentre si firmava la Costituzione in Italia e negli altri paesi si ricostruiva il sistema parlamentare con altrettante costituzioni o riforme, parallelamente si firmavano gli accordi internazionali per la svendita della sovranità nazionale. Sovranità che comunque sarebbe andata incontro ad una fine, in quanto non avrebbe retto all'insorgenza di un cosmopolitismo che probabilmente non ha bisogno del progresso di tipo antopocentrico e capitalistico per emergere: è un sentimento antico, celato solo dagli steccati nazionalistici della modernità. Ma il punto è che il quadro internazionale liberista, la globalizzazione del capitalismo e l'americanizzazione delle culture non sono avanzate democraticamente, al contrario di quanto si tenda a far credere. Non è stato un moto di liberazione; piuttosto il matrimonio poligamico degli stati del vecchio continente con la puttana più forte di tutte, gli Stati Uniti d'America. Il Piano Marshall fu, infatti, la prima grande multinazionale della storia: gli americani trovarono un approdo stabile per esportare le loro produzioni, risolvendo i loro problemi interni, con la scusa della ricostruzione europea.

Il voto utile, dunque, è solo un'altra invenzione della classe politica: serve a farci spostare l'attenzione sul tema della "governabilità", continuando a ignorare il tema della cessione di sovranità che, come sto provando a raccontare, è in atto già dal dopoguerra. La governabilità è certamente un tema importante per uno stato; tuttavia l'operazione fin qui condotta da quei politici che ogni tanto se ne occupano non tiene conto delle reali trasformazioni sociali e politiche, né della crisi di rappresentatività. Quest'ultima non è dovuta al fatto che non ci siano abbastanza partiti che corrispondano agli ideali del popolo; piuttosto alla circostanza che i partiti, in qualità di strumenti, non sono utili a rappresentare la mutevolezza e la tensione globale della società contemporanea.
Fare il confronto con gli altri paesi, rispetto a questo tema (ed a tanti altri), è sempre sbagliato. La storia, la cultura e le contingenze diverse impongono percorsi diversi.

In Italia, dopo il secondo conflitto mondiale, la situazione era davvero unica: il territorio occupato dalle forze alleate e la presenza del Partito Comunista più grande d'occidente.
La Democrazia Cristiana di De Gasperi, dopo essersi liberata dell'unità politica seguita alla fine dell'esperienza fascista e cominciata nell'ambito del CLN a partire dal 1944, diede il via, a seguito del viaggio a Washington del gennaio '47, alla famosa conventio ad excludendum nei confronti del PCI e del PSI.
Mentre si andava avanti con la stesura della carta costituzionale, l'Italia di De Gasperi aderì alle posizioni occidentali e si avviò verso il Patto atlantico. La scelta occidentalista, d'altronde, era favorita dal fatto che la presenza militare americana sul territorio italiano non fu mal vista dai cittadini; ma soprattutto, dalle questioni del confine orientale, dove l'intransigenza nazionalistica di Tito (a seguito alle manie ed alle politiche fasciste), mise in cattiva luce il Pci, disinteressato a prendere posizione in favore della patria.

L'esclusione dal potere statale dei partiti di sinistra, e l'alleanza con le forze liberali e repubblicane, permisero alla Dc, fino agli anni '60, di governare senza l'immediata attuazione di alcune parti del dettato costituzionale: persino la Corte Costituzionale entrò in vigore solo dal 1957. In quel lasso di tempo - in assenza di controllo - i governi filo-americani operarono discriminazioni politiche nei confronti dei comunisti e dei socialisti, impedirono il loro radicamento nelle istituzioni - si pensi che il ritardo nell'attuazione delle Regioni (compiuta solo negli anni '70) è servita alla Dc per non concedere poteri ai comunisti nelle regioni rosse - e gli inibirono la futura azione politica, impegnando lo Stato con i primi trattati internazionali occidentalisti.
Sostanzialmente il 2 giugno 1946 gli italiani hanno votato credendo di ottenere una sovranità che in realtà non hanno mai avuto veramente.

In questo modo, al ritiro della conventio ad escludendum nei confronti del PSI, nel 1960, e del PCI dalla metà degli anni '70, le forze della sinistra finirono per essere perfettamente integrate nel sistema, facendosi ormai solo portarici di istanze di miglioramento delle condizioni materiali. Colpa anche delle contingenze internazionali che -  qualche malizioso direbbe manovrate ad arte, col favore di Stalin - sfasciarono l'unità d'intenti tra PCI e PSI, con quest'ultimo che si avvicinò abbastanza rapidamente alle posizione atlantiste. Nel 1957, infatti, il PSI vota a favore dei trattati istitutivi delle comunità europee (Euratom e CEE); nel 1960 sostiene indirettamente, con l'astensione, il governo Fanfani II; nel '63 forma il prmo governo di centro-sinistra con la DC, di cui Pietro Nenni sarà vicepresidente del consiglio.

Alla fine degli anni '60 si poteva notare un Partito Socialista perfettamente socialdemocratico ed un Partito Comunista spaesato e non più rivoluzionario, ma fortissimo per via del suo radicamento in ambito sindacale.
Dagli anni '70 il PCI diviene una forza parlamentare responsabile, in difesa dello stato e della legalità: sostiene le campagne referendarie contro l'abolizione della riforma del diritto di famiglia e contro l'abolizione della legge sull'aborto; condannna il terrorismo; si astiene prima e vota poi la fiducia ai governi Andreotti (rispettivamente nel '76 e nel '78).
Dopo l'esperienza eurocomunista di Berlinguer, il partito fu finalmente pronto a estinguersi in mezzo caos giudiziario di tangentopoli e di mani pulite; caos che però non coinvolse direttamente quelli di via delle botteghe oscure, se non per un concatenarsi di eventi e per il mutato scenario internazionale (neo-liberismo e fine dell'intervento statale nell'economia a livello mondiale, crollo del muro di Berlino insieme al crollo dell'Urss).

Dagli anni '90 ad oggi, invece, la storia ci è più chiara: non è esistita più una forza rivoluzionaria radicata a livello nazionale ed il PDS (erede del PCI) ha sempre attenuato le sue posizioni riformiste, fagocitato della società tecnologica e dei consumi, assestandosi definitivamente nel Partito Democratico come forza di gestione delle contingenze, in favore del suo elettorato di riferimento: la classe operaia in forma liquida, gli apparati burocratici, le cooperative rosse, l'elité intellettuale. Ed anche tutti gli altri partiti della sinistra, pur distinguendosi per una più marcata retorica anti-liberista, non hanno potuto fare a meno di seguire lo stesso percorso.

L'americanizzazione cominciata nel '47 si è fatta irresistibile culturalmente dagli anni '90. Il modello che abbiamo gradualmente importato è quello della (in)civiltà dei consumi; quello liberale e poi neo-liberista. Tutto ciò favorito anche dalla televisioni commerciali di Berlusconi.
Del fallimento idealistico del '68-'69 agli inizi degli anni '90 c'era rimasto ben poco; o meglio: era rimasto poco di quella idealità ma molto in termini di una elité neo-borghese che proveniva da quell'esperienza e che ne ha rappresentato l'assorbimento delle istanze nei meccanismi sistemici.

La seconda repubblica italiana, da quel momento, si fa marcatamente più commerciale e spettacolare. I partiti e la loro politica a forma di prodotto di consumo, esposti nelle grandi vetrine mediatiche, sono sempre meno capaci di lanciare iniziative di cambiamento: perché nel frattempo hanno ceduto la sostanza vera della politica ad altri soggetti; mentre per loro hanno tenuto la forma, l'estetica.
I partiti, in qualche modo, hanno fatto da scudo e da distrazione universale rispetto all'avanzamento del mondo finanziario quale sostituto, nel potere di regolazione sociale, dello Stato ed dei partiti stessi; questi soggetti - tutto sommato - avevano mantenuto il potere fino agli anni '80. Ma forse la situazione gli è sfuggita di mano.

Gli altri importanti stati europei, molto semplicemente, erano già da tempo avviati ad una storia industriale che li inseriva, con più forza rispetto all'Italia, nel contesto atlantico: questo facilitò il superamento delle resistenze politiche, offrendo a questi paesi stabilità politica ed economica maggiore. E se è chiaro che in Germania, dove nacque il più importante partito socialdemocratico del mondo già nel 1875, la disciplina del sistema parlamentare liberale non è mai stata facile da rovesciare (ci avevano provato nel '18, dopo la prima guerra mondiale, senza successo; il resto della storia è noto), la Francia, che pure aveva un partito comunista abbastanza radicato, restava il Paese della rivoluzione borghese, condizione determinante anche nelle politiche nei suoi gruppi radicali. Gli stati scandinavi, d'altro canto, mai interessati da vere folate comuniste, sono da sempre social-democrazie stabilmente costruite su un'americanizzazione intelligente ma non per questo meno preoccupante.
In tutti questi paesi i temi del mutamento sociale e della sostenibilità planetaria sono fagocitati dalle migliori condizioni strutturali dell'economia - e di dignità materiale per i cittadini - al prezzo di far ignorare le assudità e le aberrazioni del sistema industriale, della produzione e del consumo. E non basterà le green economy a salvarci l'anima!
E quindi... non solo in Italia, ma in tutto il mondo, a somiglianza della pseudo democrazia americana, la nostra è divenuta la parodia di una democrazia.

Lo si vede negli spot elettorali, ormai sdoganati anche tra i partiti fatti di ex comunisti e socialisti, i quali riescono ad offrirci un fragrante odore di merda, più che un "profumo di sinistra". E la merda in questione la chiamerei atteggiamento spettacolizzato e commerciale. Guardate gli spot e gli slogan di SEL, di Rivoluzione Civile o del Movimento 5 Stelle: capirete che l'alternativa non è poi così alternativa.  Quelli di SEL estetici come non mai nel video, che dai toni ricorda gli spot della Rai per il sociale o quelli per il canone di qualche anno fa; ma soprattutto ridicoli nelle parole scritte: "portate i nonni a votare". RC sentimentali e spocchiosi con la Mannoia che canta; Grillo in versione terrorista mediatico.
E ancora, che è una parodia, lo si vede nei talk show televisivi e nei telegionali. Lo si vede anche nella satira, falsamente di sinistra: antiberlusconiana per antipatia e per convenienza.
Aggiungiamo anche che ogni qual volta una banca si occupa delle elezioni, come ha fatto ieri Mediobanca con i suoi forti giudizi, l'attenzione dei media e la discussione politica - di per sé già inesistente - si spostano su quell'argomento. Questo fatto indica come il potere economico delle banche e della finanza sia più forte del potere dei partiti; parimenti, quanto il giornalismo non abbia interesse a fare argine contro il modello spettacolare, ma ci sguazzi dentro senza etica.

Insieme a Bauman, Baudrillard ed altri simpatici amici, in questi mesi ho cercato di scrivere di come e di quanto siano divenute merci le nostre identità e le nostre relazioni interumane, mutuando i prodotti materiali destinati al consumo in sensocomune. Tra qualche tempo, magari, mi piacerebbe attenzionare la mercificazione delle identità politiche; il consumo di politica.
Per il momento posso limitarmi a pensare che la forma del mercato e la ricerca emozionale spettacolarizzata, finalizzata a recuperare quell'incanto che la realtà ha perduto (in termini weberiani), ha assunto la forma dell'intero pianeta. Non esiste più luogo (o non luogo) ove non soffi questo uragano, abilmente truccato da soffice brezza marina. E se esiste uno spazio fuori da questo stato di cose, probabilmente non è abitato da uomini: cosa che, anche nella modernità liquida, significa l'inestistenza. Inesistente è tutto ciò che non è nell'ambito d'interesse dell'uomo e non è filtrato dall'occhio e dal corpo umano. E qui non si parla solo di politica e di contrapposizione tra modelli di sviluppo, ma anche di atteggiamento culturale: non è importante se un isolotto inabitato da uomini viene sommerso per l'innalzamento del livello del mare. Anzi, non è nemmeno accaduto.

Andare a votare, sentendosi tutelati da e tutori di una Costituzione che fin dall'inizio è stata scavalcata agevolmente (e che non rappresenta nemmeno una grande conquista politica, per quelli come noi), mi sembra un'operazione inutile. Non credo nell'arrivo di governi peggiorativi delle condizioni materiali e culturali; ammeno ché non si pensi che peggiorativi siano quelli che non seguono le direttive dell'Unione Europea (più che altro i poteri economici e la finanza) e migliorativi quelli che le seguono. Che poi, a parte qualche pasticcio, tutti i governi sono costretti a seguirle.

Il nostro orizzonte è un po' più in là: oltre le istituzioni democratiche tradizionali; oltre l'Unione Europera liberista e imperialista; verso l'unione dei popoli che rifiutano, in tutto il mondo, quel diritto alla prevaricazione capitalistica tutelato dagli ordinamenti giuridici degli stati cosiddetti democratici.

martedì 19 febbraio 2013

Intervallo. [E ripartenza].

"Senza il libro del viaggio si affumicavano i pensieri: è arrivato il conto, è un foglio di via, urgente come un “vattene”, cosa vuoi da città e ragazza, te ne sei andato a smaltire lontano il tempo migliore, qui nessuno ti conosce e nessuno ti può riassumere gli anni mancati. Cosa vieni a fermarti nella città spalata e ammucchiata, dove basta uno scirocco a staccare tegole, cornicioni, intonaci? Non è posto da nozze. La ragazza ha da sporgersi sopra l’avvenire come sopra un balcone di montagna, tu le puoi offrire un vicolo. Che ti ami non basta ad arrivare al giorno dopo, e che tu l’ami: grazie, lei è la festa, la fortuna, il tuo posto, tu sei il dente estratto da mascella che ritrova il punto di partenza nel cavo del suo abbraccio. Lei è il tuo posto, ma tu non sei il suo. [...]

La cucina è spenta, non preparo la cena, non apparecchio i piatti, niente vino. Siedo con il foglio del conto aperto e aspetto. Lei ritorna, saluta, vede e si mette a sedere. Quanto siamo rimasti zitti, poi che parole mandate allo sbaraglio nel campo dei centimetri che le nostre mani non potevano attraversare: ho scordato. Deve avermi detto di non fare così, ma io non so più di che materia fosse quel così, se bruciava o era spento. 

Ora che è vita andata, recito l’atto di dolore: mi pento e mi dolgo, mi dolgo e mi pento di averle presentato il conto. La presunzione di avere diritto mi gonfiava la vena della fronte. Avanzavo il mio rauco reclamo e più sacrosanto era, più era goffo: le chiedevo il conto, e mai si deve tra chi sta in amore. Non esiste il tradito, il traditore, il giusto e l’empio, esiste l’amore finché dura e la città finché non crolla. Poi esistono i bagagli e si ritorna profughi, senza la giustifica della maledizione di una guerra, senza una malasorte da spartire con altri. Di quel conto tutto era stato già pagato e il saldo era che bisognava alzarsi di sedia, di stanza e di città". 

E.D.

venerdì 15 febbraio 2013

No Muos: un battaglia anti-imperialista che può cambiare il mondo

Qui non si tratta di dichiarare i siciliani padroni a casa propria; non si tratta di preservare gli spazi naturali e il suolo pubblico; non si tratta di tutelare la salute dei siciliani; non si tratta nemmeno di ripudiare uno strumento di guerra, né la guerra stessa. Qui si tratta di innescare una trasformazione globale. Ma questa trasformazione si può innescare solo se c'è un popolo davvero informato, e finalmente cosciente della portata di questa battaglia; del significato di questo rifiuto.
Un governo regionale o nazionale può cedere ai meccanismi del sistema, al bon ton (o opportunismo) diplomatico; un popolo consapevole invece non può essere fermato. E questo popolo è un popolo globale.

Non dovranno essere i siciliani a rifiutare l'impianto di antenne satellitari sul territorio che sentono proprio; dovrà essere un popolo più vasto, che oggi si unisce non già sulle fratture territoriali ed entro i confini della modernità, ma generato dalla liberazione cosmopolita dal nazionalismo, per la quale anche il termine "trasversale" tende ad essere inutilizzabile. E' il popolo ultranazionale unito dall'avversione all'imperialismo del XXI secolo; il popolo che, in ogni parte del pianeta, lancia un grido di cambiamento contro le offese alla propria vita. Un cambiamento che, tuttavia, spesso non sa raccontare; ma che, in fin dei conti, significa la fine della religione moderna fondata progresso antropocentrico, sull'accettazione legalizzata della prevaricazione e subordinazione economica e sociale, cioè sull'economia capitalistica, oggi liquida e finanziaria.

Tutto il mondo a Niscemi, tutto il mondo è Niscemi.
Le istanze di trasformazione della società globale attraversano le contingenze dello stato di salute del welfare e si spingono fino allo stato di salute del pianeta, attraversando la ribellione del sangue e dell'anima contro gli abusi della potenza militare e del potere persuasivo della società dei consumi.
Impedendo agli U.S.A. di realizzare il loro progetto di fortificazione del dominio militare sul mondo, finalizzato al rinnovo della vittoria dell'ideologia neoimperialista occidentale e della sottomissione culturale al modello democratico liberista, si vincono, tutte assieme, le battaglie per la salute, per la tutela del territorio, per il bene comune ed i beni comuni, per il ritorno della responsabilità sociale dell'economia.
La Sicilia, in Europa, lancerebbe un moto di cambiamento democratico e popolare. Ma, ripeto, serve un popolo unito e consapevole. Serve un popolo senza confini.

Il Presidente Crocetta andrà a colloquio con l'ambasciatore americano ed i suoi funzionari: la paura di una ricatto è fortissima. Ma noi siamo qui per vincere, al di là dei ricatti istituzionali. Noi dobbiamo esserci sia per sostenere Crocetta, sia per scavalcarlo, grazie alla forza della nostra organizzazione che è parallela alla realtà dello Stato liberal-democratico in cui ci troviamo.
L'auspicio è che i cittadini del mondo, liberamente uniti in gruppi denazionalizzati, e fuori dalle istituzioni tradizionali, abbiano la capacità di divenire soggetti della politica internazionale, partendo da occasioni come quella del MUOS.

Il 30 Marzo a Niscemi, se la manifestazione nazionale verrà confermata (e speriamo), dovremo portare la consapevolezza. Ed in tutte le sedi, in tutti i momenti, condurre la stessa lotta delicata, per vincere non solo oggi ma anche domani. Per non far morire l'eventuale vittoria della prima battaglia, dimenticandone il senso più profondo, cioè l'avversione alle attuali leggi del sistema internazionale.

martedì 12 febbraio 2013

Fuori da tutti i carnevali

Non manca molto, le elezioni sono ormai vicine. In questi giorni i politici faranno una campagna elettorale più serrata e più infuocata.
Ma quest'anno, che non manca molto, lo capiamo anche perché c'è stata questa strana coincidenza con l'altro carnevale, quello tradizionale.
Peppino Impastato del carnevale scriveva:


"Oggi si butta giù
la maschera, mascherandosi.
Il carnevale
è una festa davvero strana:
si vince l'ipocrisia
erigendole un monumento mascherato".


Quale miglior monumento se non una democrazia, finisco col chiedermi.
Capitale. Carnevale. Società. Spettacolo. Politica. Unendo i puntini esce fuori la raffigurazione chiara del mondo contemporaneo.

In questa società dello spettacolo ci si deve persino preoccupare del Festival Sanremo, che, secondo alcuni, potrebbe ridurre gli spazi della campagna elettorale o addirittura condizionare l'opinione pubblica. In sostanza... credo che la prima sia un'affermazione falsa; mentre la seconda vera in parte. Ma in questa sede non ci interessa approfondire, per cui andrò oltre.
L'altra faccenda "calda" che finisce nel calderone della campagna elettorale, riguarda le dimissioni del Papa: si intravedono già, da un lato commenti istituzionali e bonari molto molto ipocriti, e, dall'altro, interpretazioni pseudo politiche che in realtà, divenendo troppo esagerate, allontanano la verità di una vicenda che davvero nasconde un significato politico internazionale; ma molto delicato e complesso. In realtà, non oso immaginare su quali cazzate sposterà la nostra attenzione questa vicenda del Ratzinger, e quanto, ancora di più, ci drogherà mediaticamente fino a non farci più interessare al resto. Beh, magari questo no: ma certamente, da quel che vedo, il modo in cui verrà affrontata la vicenda da ora in avanti è il solito modo spettacolare e sensazionalista; per cui, ancora una volta, la realtà e la substantia del discorso poltico sono minacciate.
Ma lasciamo perdere anche questa vicenda, e proiettiamoci molto più in avanti.

Una cosa davvero interessante è che nelle nostre democrazie occidentali, in campagna elettorale, non si parla mai di politica: si affrontano temi, si sviscerano cifre, si fanno proposte più o meno improbabili, si ride, ci si accusa, si chiamano in causa giaguari e macchie... ma non si parla - realmente - di politica. Intendo dire che il nodo centrale di tutte le questioni aperte dovrebbe essere l'interrogarsi sul ruolo, la forza, i luoghi e i modi in cui nel 2013 è agita la politica. Di cosa è oggi la politica e di come può funzionare meglio.
Di tutti i paesi occidentali, da questo punto di vista, l'Italia è uno dei quelli che evitano queste tematiche in modo più diventente: da un lato Berlusconi, che di per sé (ormai lo sappiamo) è improponibile, continua ad affermare i mali del comunismo seguito a ruota da Monti e - che Dio lo abbia in gloria - da Giorgio Napolitano, uno dei peggiori ex-esponenti del P.C.I. (questa sua qualità valga come spiegazione della permanenza al Quirinale); dall'altro lato la sinistra radical chic si perde in congetture ed in lezioni di morale, mentre la sinistra delle banche, dei giornali e delle cooperative ammanta di un bieco parternalismo questa competizione elettorale. Poi c'è la magistratura e c'è il mondo della stampa: essi sono responsabili di compiere fin troppi abusi, determinando situazioni politiche strumentali (ma questo è, in parte, un fenomeno mondiale). In fine i talk show televisivi: dei perfetti teatrini; ma rispetto a quelli degli altri paesi occidentali (equalmente vuoti ed insignificanti) hanno il pregio di farci "divertire" di più. Sono tragicomici.

Non mi va di commentare  quello che ho sentito in campagna elettorale. Qualche parola, tuttavia, la spenderò per Giorgio Napolitano, il quale ha affermato che il comunismo ha fallito storicamente.
Non voglio, in questa sede, insultare il Presidente della Repubblica (anche se lo meriterebbe), ma mi sia consentito dire che quell'affermazione è fuori luogo, in mala fede, ovviamente falsa e per nulla superpartes. Essa tende ad incidere sulla campagna elettorale sulla scia Berlusconi-Monti (il primo è dal '94 che vende il mito della salvezza dai comunisti, il secondo ha affermato che il Pd sarebbe nato nel 1921, anno di fondazione del Partito Comunista d'Italia, volendone dare una visione negativa) ma soprattutto a continuare a ingannare gli italiani. Sia chiaro: il comunismo non ha fallito! e questo perché semplicemente non si è mai realizzato. Semmai le esperienze politiche nazionali di ispirazione marxista sono state sconfitte dalla potenza occidentale e dal suo sistema dei consumi. Questo sistema ottenne ben presto consenso ed efficacia nella regolazione sociale dell'occidente, generando fiducia e coesione politica. Rispetto alla società di spettacolo e di consumo occidentale, il blocco dei paesi socialisti non fu in grado di trovare uno strumento di competizione.
Tra le due affermazioni c'è una differenza sostanziale! La prima implica che il sistema comunista non funzioni strutturalmente; la seconda racconta come è andata la storia e dice che la forza imperialista dei paesi capitalisti ha ucciso e ha sconfitto le esperienze comuniste.
La cosa grave è spostare sempre il dibattito su queste stronzate. 
Parentesi chiusa.

Ora, mentre accade questo niente politico - e viene spettacolarizzato -, di dove stiano andando l'Europa e il mondo, di come quello che accade in qualsiasi parte del pianeta si ripercuota nelle nostre piccole comunità, di quanto incidano le scelte delle multinazionali e dei gruppi finanziari internazionali, di tutto questo... non ne parla nessuno.

Come è possibile che non riusciamo a ribellarci a queste campagne elettorali, al rito stesso del voto, alle solite forme della partecipazione, quando è sotto gli occhi di tutti che il luogo della politica oggi non è più lo Stato ma si è spostato nel mercato, o meglio nei mercati?

La situazione internazionale, e di conseguenza quella italiana, - è bene ricordarlo - non può essere spiegata e risolta né con slogan né con enunciati sistematici derivanti da una visione ideologica rivoluzionaria.  E' una vicenda complessa. Basti pensare all'interconnessione del capitalismo monetario e di quello finanziario; al livello di radicamento delle logiche del mercato; a tutti gli istituti e ai meccanismi generati da questo sistema, che abbietto per com'è, determina le politiche dei nostri governi... ma anche le nostre azioni individuali.
Pensiamo al caso degli F35: è una vicenda che ha ripercussioni diplomatiche e direttamente economiche, difficile da gestire. La responsabilità diretta dei promotori è ormai accertata; l'avversione ideologica di moltissimi di noi pure. Ma resta difficile sbrogliare con slogan o enunciazioni morali il complesso di situazioni generatosi e di quelle che potrebbero generarsi con un ritiro dalla partecipazione al progetto promosso dalla Lookheed. Sostanzialmente temo che sarà difficile per Bersani e Vendola "tagliare" gli F35, dopo che, nel 1998, è stato proprio Massimo D'Alema, uno dei lobbisti più importanti d'Italia con la sua fondazione "ItalianiEuropei" ed eminente esponente del PD,  a firmare il patto di collaborazione al progetto; difficile anche a seguito del fatto che le conseguenze negative di una brusca ritirata graverebbero non solo sui rapporti internazionali e sul posizionamento italiano dentro la NATO, ma anche su vicende economiche interne. E' utile ricordare che gli F35 sono già in produzione, tra poco anche in alcuni cantieri italiani. L'impianto è pronto; e ci lavoreranno operai italiani.  

"[...] al progetto F35 partecipa anche l’Italia con la produzione di alcune parti delle ali e della fusoliera nello stabilimento di Cameri (Novara). Il nostro paese è un partner di secondo livello, con un investimento di 1 miliardo di euro a fronte dei 2,5 degli inglesi, e gli F35 sostituiranno tra il 2015 e il 2026 gli Amx e i Tornado dell’Aeronautica e gli AV-8 Harrier della Marina. Lo stabilimento di Cameri costerà circa 800 milioni e la produzione delle ali di 1.251 apparecchi garantirà un ritorno di 540 milioni. Lo stabilimento, però, diventerà «la seconda catena d’assemblaggio mondiale ponendosi in lizza come futuro centro europeo e mediterraneo di manutenzione e per l’applicazione delle tecnologie stealth agli apparecchi»". [ Panorama.it, http://italia.panorama.it/F35-e-Eurofighter-Typhoon-in-Italia-gli-aerei-militari-di-nuova-generazione ]

I problemi relativi alle implicazioni sociali della realtà economica capitalistica sono all'odine del giorno da anni: si pensi alle commesse di enormi navi di lusso fatte in favore dei cantieri nautici italiani che, se ritirate a causa di politiche fiscali intese a ridurre le differenze sociali ridistribuendo la ricchezza (o a causa dell'evasione fiscale, che in Italia è servita, tra le tante cose, a scavalcare i principi della Costituzione che semplicemente non andava bene in un clima americanizzato, e per determinare un più marcato favore nei confronti del capitalismo), mettono a rischiomigliaia di posti di lavoro. 
Ma nel caso degli F35 abbiamo una visione internazionale ed imperialista (poiché legata al potere militare) del sistema sociao-economico e della sua complessità. Certo, ad essere sinceri, sono molti di meno i problemi di rinconversione del lavoro nel settore altamente specializzato dell'industria da guerra, che in tutti gli altri settori. E nel caso di questi innovativi aerei, sempre per dirla tutta, si parlerebbe di poche cetinaia di lavoratori.
Tuttavia si aprono anche qui degli scenari che non si possono ignorare.

Un'altra delle situazioni contingenti di rilievo, sulla quali i movimenti hanno trovato il sostegno della politica istituazionale, riguarda il MUOS di Niscemi: il sofisticato sistema di antenne satellitari U.S.A., destinato a funzioni militari, che mette a rischio (secondo molti) la salute delle comunità locali, deturpa e saccheggia il territorio pubblico della "Riserva naturale orientata Sughereta", e, soprattutto, serve a rafforzare il sistema neoimperialistico occidentale filo-statunitense. 
Ma, se è vero che c'è il sostegno del Presidente della Regione, di diversi gruppi politici, oltre che di larghissima parte dell'opinione pubblica, temo che le differenze sulle quali oggi si fonda questo sostegno, da parte di una così eterogenea platea, finiranno ancora una volta per non consegnarci una vittoria totale, anche nel caso in cui - straordinariamente- i lavori dovessero essere interrotti. Ferrandelli è stato il primo firmatario della mozione contro il MUOS all'Ars; i grillini tra i più convinti sostenitori; anche l'Udc sembra d'accordo. Ma... questi soggetti che idea hanno della politica internazionale? E poi... sono anch'essi anticapitalisti come i movimenti più animati che fanno parte del fronte NO MUOS? E il Presidente della Regione, Crocetta, che ha invitato Martin Schulz (Presidente inutile dell'inutile Parlmento Europeo) in Sicilia per fargli vedere che la Sicilia vuole stare in Europa e farà di tutto per adeguarsi... perché non gli chiedeva di prendere posizione sul MUOS? 
E poi la gente comune. Glielo vogliamo dire o no che più che per la salute a noi importa fare una battaglia per riscrivere le logiche socio-economiche internazionali e non essere più oppressi dal sistema imperialistico? Vogliamo spiegare a tutti che vincere a Niscemi - e vincere davvero - vorrebbe dire cambiare il sistema internazionale?! Non sarebbe il caso di parlare in questi termini?!
Crocetta, Ferrandelli, il Pd, l'Udc... oltre ad avere le mani legate dai difficili equilibri politici nazionali... sono perfettamente inclusi in quel sistema, che difficilmente ripudieranno se questa istanza non partirà dal popolo. Per altro ormai, come stiamo vedendo, i loro poteri sono limitati dagli accordi internazionali: un vero tema sul quale non si discute mai!

A Niscemi si può fare vincere qualcosa di più grande che l'inutile orgoglio siciliano di tipo nazionalistico, o le più serie ragioni della salute e di sostenibilità ambientale. Cioè tutte queste questioni importanti, con una sicilianità che invece può voler dire una forma storica da reinterpretare in senso cosmopolita, possono vincere nel contesto più ampio della vittoria dell'avversione alla cultura capitalistica, dei consumi, della finanza e della lotta imperialistica che sta distruggendo il pianeta. 
Ma forse ci vorrebbe un po' più di serietà e di chiarezza da parte di tutti quelli interessati alla vicenda.

Ho divagato. Ma volevo solo mettere in luce la complessità che anche questa vicenda mostra, per ribadire una volta di più la necessità di occuparsi di politica in altri termini. Per l'esattezza, in primo luogo, nei temini della comprensione del senso dell'azione politica nel XXI secolo, della ricerca di nuove forme e soprattutto dell'individuzione delle strutture e degli strumenti che devono rimpiazzare quelli che evidentemente non funzionano più: il partito di massa otto-novecentesco, lo Stato-Nazione, il parlamentarismo democratico moderno etc.

Le istuzioni politiche odierne, alle quali continuiamo a rapportarci e a dare il nostro consenso, sono esattamente quelle che, pur garantendo ancora una certa regolazione sociale generale, non rispondono più a quel principio della sovranità affidata al popolo che dovrebbe essere il fondamento della nostra gestione associativa della vita pubblica, anche nell'era tecnologica. Ma al di là del fatto che la sovranità del popolo debba essere o meno un principio ancora valido (in effetti, dal punto di vista dell'analisi sociale, temo che tutte le strutture e i concetti tendano a non avere più valore fuori dal loro tempo storico: sia "sovranità" che "popolo" possono esser rimpiazzati), nei fatti si verifica che mentre questo principio è pubblicizzato e difeso esteticamente, da uomini di potere ed istituzioni di tutto il mondo, nella realtà la sovranità è stata ormai ceduta, in larga parte,  ai mercati. A tal proposito, vi propongo un passo tratto da Zigmunt Bauman:

"Se si concorda con l'affermazione di Carl Schmitt, secondo cui la prerogativa ultima che definisce la sovranità è il diritto di esentare, si deve ammettere che nella società dei consumatori il vero titolare del potere sovrano è il mercato dei beni di consumo; è lì, nel luogo dove si incontrano venditori e compratori, che avviene quotidianamente la selezione e la separazione tra chi è dannato e chi è salvo, chi è dentro e chi è fuori, chi è incluso e chi è escluso [...] Per respingere le proteste che a volte seguono i verdetti del mercato i politici hanno a disposizione la collaudata formula del "non eiste alternativa", diagnosi ch etende ad autorealizzarsi, ipotesi che produce la propria autoconferma. [...] In effetti non è lo Stato, e neanche il suo braccio esecutivo, a indebolirsi, erodersi, svuotarsi, a diventare un "ramo secco", ma la sua sovranità, la prerogativa che esso ha di tracciare la linea tra chi è incluso e chi è escluso, ivi compreso il diritto a riabilitare e a riammettere gli esclusi. 
In parte, tale sovranità è stata già in certo qual modo limitata, ed è probabile che continui a ridursi, pezzo dopo pezzo, sotto la pressione di leggi vincolanti a livello globale, sostenute da organi giudisdizionali (...) che iniziano ad emergere.  Questo processo ha tuttavia rilevanza secondaria o subordinata rispetto alla questione della nuova sovranità dei mercati, e cambia ben poco il modo in cui le decisooni sovrane vebgono prese e legittimate. Anche quando è spostata "in Alto" e trasferita a istituzioni sovrastatali, la sovranità (almeno dal punto di vista del principio cui essa si presume e si pensa ottemperi) continua a mescolare il potere con la politica e a subordinarlo alla sua supervisione; e, ciò che più conta, grazie al fatto di avere recapito fisso può essere contesta o  riformata.
Molto più rivoluzionaria (...) è un'altra tendenza, che scardina in modo assai più radicale la sua sovranità: la tendenza dello Stato, indebolito, a trasferire lateralmente, anziché verso l'alto molte delle proprie funzioni e prerogative, cedendole al potere impersonale dei mercati, ovvero la sua resa sempre più totale alle forze del mercato, che si oppongono alle politiche sostenute e approvate dall'elettorato [...] ". [Z.B., Consumo, dunque sono, Laterza, Bari, 2010, pagg. 82-83]

A fronte di tutto ciò dovremmo decidere cosa fare: riformare lo Stato in modo che possa rispondere meglio alla "realtà liquida", magari contribuendo a condizionarla, e porlo più chiaramente nell'ambito della globalizazione, recuperando una sovranità che risieda finalmente nei popoli (però in ottica cosmopolita e non nazionalistica); oppure lavorare per abbattere lo Stato e sostituirlo con qualcosa di diverso, se gli si riconoscerà l'incapacità di modellarsi sul mondo contemporaneo e se lo si inquadrerà (finalmente) per quello che effettivamente ha rappresentato: un'istituzione figlia del capitalismo, utile al capitalismo. 

Lenin saprebbe rispondere anche nel 2013 alla risposta "Che fare?". Io, che certamente non sono Lenin, non so rispondere. Ma temo che "fare", che "agire" sia molto più complesso di quanto i marxisti-leninisti, ancora oggi, pensino.
Però, chiaramente, è necessario fare qualcosa. Perché vivere è agire. Innanzitutto, bisogna fare qualcosa per tutelare ed offrire alla pienezza dell'esperienza sociale le nostre vite oggi. Sicuramente però ci dovremmo interessare di come far vincere un modello moralmente più forte e riuscire a limitare il nostro atteggiamento antropocentrico domani. 

Quando si va incontro alle elezioni, purtroppo, non si ha contezza di tutto ciò: si è, così, tristemente coinvolti in una dimensione alienante fatta di cifre, dichiarazioni, slogan, battute, satira, accuse, scatti di orgoglio, riferimenti bibliografici usati un po' a cazzo e strumentalmente, che ci consegna l'idea per la quale l'unico terreno in cui poter agire la politica vera sia quello parlamentare. Facendoci giustamente indignare per la qualità del dibattito e per gli abusi della "casta". 
Ma la verità è che la politica si trova in tanti luoghi; e forse il Parlamento è uno dei luoghi dove è meno presente. Questo concetto, sbrigativo e polemico, è ovviamente impreciso e indegno di un'analisi scientifica. Ma questa non lo è. Ed il messaggio che vorrei passasse credo che ormai sia chiaro: bisogna lavorare fuori dalle istituzioni storiche, costruire parallelamente l'alternativa. Con distanza da tutto ciò che è logoro e non ci appartiene, recuperare la sovranità.

Putroppo, ai tempi dello spettacolo generalizzato, la dialettica tra rivoluzionari e riformisti è piombata anch'essa sul palcoscenico del grande teatro. Lo penso quando mi rivedo nei cortei - solitamente abbastanza istituzionali, o comunque fagocitati dalle istituzioni abbastanza celermente - ai quali ho preso parte, con grande entusiasmo e con una voglia di agire genuina e istintiva, fino a qualche anno fa. Credo che impegnassimo male il nostro tempo: quei cortei non sono mai serviti a molto, se non a creare un po' di socialità (ma per quella di modi ce ne sono molti altri); e credo che facessimo troppo spettacolo anche noi: slogan, foto, musica, balli venduti come qualcosa che, in realtà, non  riuscivano ad essere. Questa situazione, purtroppo, la vedo ancora oggi, peggiorata da Facebook: un senso di partecipazione che si è fatto via via più estetico che sostanziale - e che infatti riesce ad avvicinare alle "battaglie" condotte, anche la borghesia urbana pseudoacculturata senza metterla in discussione, e senza che essa si senta messa in discussione -, in linea con le logiche sistemiche e dunque (forse) poco utile a fini politici rivoluzionari. Senza contare che la maggioranza delle battaglie contingenti, più marcatamente dagli anni 90, hanno assunto i connotati della "controrivoluzione", più che della rivolzuione: cioè quello sforzo  inteso a recuperare, in questo specifico caso, la condizione promessa,  accarezzata ed in parte vissuta per mezzo della crescita economica, nel clima generale della società dell'abbondanza innauguratosi a partire dagli anni '60 del secolo scorso.

Ma non tutte le speranze sono perdute. Anzi, sono certo che recuperemo la bontà delle nostre istanze politiche di trasformazione e le scioglieremo dai vincoli di partecipazione alla società dei consumi, per uscire finalmente fuori dal carnevale istituzionale e da quello controrivoluzionario.

Ai posteri, come sempre, l'ardua sentenza. A noi il compito di prendere parte, di sbilanciarci, di parteggiare. Di vivere.