martedì 22 maggio 2012

Introduzione ad una riflessione sulla politica


Un tempo mi avrebbe entusiasmato l'elezione di un sindaco di Rifondazione Comunista in Sicilia... com'è accaduto a Palagonia (CT). Oggi, invece, penso che serva a poco - rispetto ad un disegno di reale cambiamento - ed assuma un valore differente da quello che è avvertito: è utile a svelare il malcontento della gente ed a sfatare il mito che la politica sia solo un affare per i moderati e gli pseudo-riformisti; è indice del disorientamento e della lesione del sistema. Ma ponendo la stessa rifondazione comunista quale forza moderata e conservatrice (quantomeno perché è un partito parlamentarista e, pure predicandone una ipotetica forma "radicale", riformista), neppure quella che appare come una "rivoluzione", ed è chiacchierata nei dibattiti politici di sistema quale vittoria radicale, potrà mai esserlo davvero.
Bene... la politica oggi non si decide, realmente, a livello dello Stato e delle istituzioni - anzi, potremmo dire che nelle istituzioni si "sdecide", vista la tendenza a ridurre la legislazione sociale - ma viene stabilita da qualcosa di altro. Il mercato capitalistico è una prima risposta, ma decisamente incompleta [e dovremmo approfondire]. In sostanza però possiamo notare e sentire un insieme di “forze” che ai nostri giorni inibiscono l'azione politica tradizionale ed impediscono alla Decisione di generarsi nei "luoghi" della politica fin'ora riconosciuti... come i Consigli e le giunte comunali, le assemblee regionali ma anche i parlamenti nazionali e i governi. E nemmeno le istituzioni politiche sovranazionali svolgono il ruolo di "decisori" delle politiche nel senso moderno del termine. 
Eccoci: partiti che vivono incongruenze ideologiche (chi da decenni, come i partiti comunisti; chi da meno tempo come i movimenti populisti); voglia di cambiamento e voglia di politica; e... incapacità a coprendere cos'è e dove si trova la politica oggi.
Viviamo nel tempo in cui la letteratura sociologica e politologica invita a rimettere in discussione tutte le categorie: dall'identità, alla comunità, alla cittadinanza, ai luoghi, allo spazio, passando per lo Stato ed il mercato. Tutte queste parole, che sottendono costruzioni ben precise della modernità, diventano sempre meno adatte a raccontare il presente. Evidentemente, se è ipotizzabile che diventi inutile parlare di identità [Bauman, 2004] poiché sono molteplici la variazioni che un individuo, un gruppo, un fenomeno o un oggetto subiscono durante la loro esistenza nell'età dei consumi, potremmo arrivare persino a postulare, nel nostro presente, forme della politica decisamente innovative... fatte di "strumenti" ancora non codificati. E certamente siamo invitati ad aprire gli occhi ancora di più, fino alla "rottura dei limiti di compatibilità di sistema" - espressione usata dal Melucci per spiegare lo "statu nascendi" dei movimenti che qui ampliamo fino alle estreme conseguenze - e quasi come nella riedizione dell'incipit di un celebre cortometraggio di Luis Buñuel e Salvador Dalì.
Affermare che stiamo vivendo una fase molto matura della cosiddetta "globalizzazione" è, dunque, la chiave di volta di tutto il discorso. Come farà il “rivoluzionario” sindaco di Palagonia a cambiare le sorti di quella che ormai non è più nemmeno una "comunità" in senso tradizionale - nell'era di internet, dell'abbattimento dei confini e delle distanze, nel tempo della libertà di circolazione e del graduale mescolamento delle culture - e mentre il lavoro stesso (la piaga più grave oggi avvertita) ha cambiato il suo valore nel quadro della regolazione sociale e, per altro, è determinato da leggi molto più grandi delle nostre Costituzioni e della nostra buona volontà di creare “nuovi posti di lavoro”? Come si creano i posti di lavoro, se, per altro, non sfuggendo all'ordine legale, non viene ripudiato il capitalismo? E l'opposizione alle tasse.... la si gestisce solo come un fenomeno di ribellione agli abusi di gruppi ai quali manca, d'improvviso, un riconoscimento? E poi... basterà riempirsi la bocca di slogan sui “beni comuni” e far vincere le elezioni ai paladini di questi ultimi... a rendere questi beni davvero comuni? Esistono, è vero, pratiche di buona politica; o meglio esistono pratiche buone di “alleggerimento” rispetto alla società capitalistica. Ma, se ci si pensa bene, si tratta di fenomeni ingannevoli: da un lato pongono in essere politiche apparentemente oculate indirizzate verso il risparmio, la fine della corruzione, il taglio dei privilegi della classe dirigente; dall'altro proclamano gli ideali di bene comune con formule astratte e spacciano il riformismo per la rivoluzione. Ci sarebbe da dire che i privilegi e la corruzione sono esistiti ed esistono per una qualche ragione, ed hanno avuto conseguenze che nessuno accetta di riconoscere come “positive”, ma che, nel senso comune, lo sono. Per cui togliendo la stampella (se è una di quelle importanti) bisognerà star attenti che il malato non rovini miseramente per terra; vale a dire chiedersi se affidare alla legalità, con la morale della meritocrazia, anche gli ultimi territori liberi... non sia peggio che andar di notte! In termini ancora più spiccioli: lo Stato, la legalità odierna, possono oggi rappresentare la via di uscita dai problemi delle nostre società? Oppure proprio lo Stato e la legalità divengono irriconoscibili, in quanto promotori di interessi che si trovano in opposizione agli ideali delle avanguardie, ed alle spinte che, in qualche modo, sono espresse dal popolo? Staremmo parlando, in tal caso, dello sganciamento della “legalità” dalla “legittimità” prevalente, dove la legalità esprime il disegno di una società capitalista e la legittimità prevede l'avversione a questo disegno e, come antidoto, l'eversione.
Insomma potrei continuare per ore... ma il punto è stato centrato: come si fa a mutare una legalità (che adotta inevitabilmente dei dogmi, dei valori assoluti) attraverso la legalità? E come procedere quando, addirittura, essa non è più strettamente collegata alle dinamiche dell'ormai ex stato-nazione?

Sebastian Recupero

venerdì 18 maggio 2012

Torniamo a parlare un po' di mafia

Ieri si è svolto a Roma un incontro tra un gruppo di studenti universitari e Pino Maniaci, ideatore della TV comunitaria anti-mafia Telejato. Lungi da me fare una cronaca della giornata, motivo per il quale non mi soffermerò in dettagli puramente giornalistici, considero più interessante soffermarmi sugli spunti di riflessione che l'incontro mi ha fornito.
Diventa sempre più chiaro che in Sicilia non esista "l'antimafia" quanto piuttosto "le antimafie", dal momento che esiste una forte diversità sia nella concezione della mafia sia nelle forme adottate nel combatterla.
Un discorso a parte andrebbe fatto per l'antimafia istituzionale, un abbinamento di termini che sembra stia diventando sempre più un ossimoro. Ma in questo frangente mi soffermerò essenzialmente sulla cosiddetta antimafia sociale.

Stando a Pino Maniaci in Sicilia sembrerebbe stia avvenendo una sorta di "rifiuto collettivo" della mafia, che mette in grande difficoltà gli uomini d'onore in coppola e lupara costringendo l'organizzazione criminale nel suo complesso a "trasferirsi" in aree in cui prima non era presente, e la cui popolazione non ha quindi sviluppato gli "anticorpi" che pare siano ormai presenti invece nel "sistema immunitario" della società siciliana. Ma anche qui ci sono parecchie cose da dire.
Intanto, cos'è la mafia?
Sicuramente dire che la mafia è un'organizzazione criminale è limitativo, molto limitativo. C'è troppo altro. Maniaci parlava di poche migliaia di mafiosi a fronte di milioni di siciliani, ovvero una netta minoranza. Ma il discorso regge?
La mafia in Sicilia ha spesso avuto un ruolo sociale non indifferente, ha caratterizzato lunghi tratti della nostra storia e indirettamente continua ancora a farlo. La (quasi religiosa) devozione nei confronti della figura del cosiddetto uomo d'onore, che per certi versi ancora continua in altre forme rispetto al passato, non è saltata sicuramente fuori dal nulla, è frutto di una lunga costruzione sociale di tale figura.
Quindi denunciare il "mafioso" senza coinvolgere nella denuncia anche quel sistema sociale che lo crea e lo legittima diventa un'opera (per quanto meritevole di rispetto, in quanto Pino Maniaci rischia la sua stessa vita nella sua azione, così come l'intera sua famiglia, che collabora ai servizi di Telejato) quasi "marginale" rispetto a quella che è la reale portata del problema della mafia in Sicilia.
Poi bisogna anche considerare dei fattori, magari molto scomodi, che però è impossibile ignorare.
Il vuoto lasciato dallo Stato nelle regioni meridionali del nostro Paese ha permesso alle organizzazioni mafiose di essere, per lunghi periodi, l'unico punto di riferimento reale dei cittadini di quei luoghi.

Paradossalmnte la mafia ha svolto in Sicilia quelle funzione proprie di una qualsiasi macchina statale, seppure con metodi "alternativi".
Parlo di controllo del territorio, mantenimento dell'ordine, sviluppo economico arrivando perfino a svolgere il ruolo di "ammortizzatore sociale", dotandosi di un proprio "apparato burocratico" e di una propria "forza militare". Uno Stato nello Stato.
Il metodo utilizzato non è differente da quelli delle varie dittature tipiche dei paesi che potremmo definire "a sviluppo capitalistico arretrato", dove la necessità di mantenere il potere porta ad un utilizzo sistematico della violenza in quanto tale potere non è abbastanza saldo da potersi permettere il lusso della democrazia.
In poche parole, lo Stato italiano (per vari motivi) ha abbandonato politicamente al suo destino il Sud, e quest'ultimo si è organizzato per i fatti suoi. La tanto decantata autonomia siciliana ce l'abbiamo avuta, in un modo o nell'altro. E dato che la Sicilia non è estranea alle leggi universali che regolano i processi di sviluppo capitalistico, la forma di potere che qui si è creata era la più idonea al livello raggiunto dalle forze produttive nella nostra terra. Ovviamente i distinguo da fare sono parecchi, me ne rendo conto, soprattutto per il fatto che questa forma di potere nasceva in un terreno estraneo a quello istituzionale, col quale finiva inesorabilmente per entrare in conflitto, ma le dinamiche generali restano le stesse. Lo Stato e la Mafia agivano come "forze concorrenti", in una terra non ancora pronta per la democrazia di stampo liberale.

Tutto questo ha creato un profondo radicamento della "cultura mafiosa" che ancora oggi è difficile estirpare, e la prova più evidente si ha quando il siciliano medio (non vi incazzate ma è così, parlo per esperienza diretta) ha meno diffidenza nel mafioso nostrano piuttosto che nella politica istituzionale che fa capo a Roma, e l'antimafia, di qualunque stampo, credo sia costretta a tenere sempre a mente questo "dettaglio" fondamentale, se no è una lotta contro i mulini a vento.

Ci sarebbero ancora tante, troppe cose da dire sull'argomento, ma la lunghezza di quanto già scritto mi suggerisce di trattarle magari in un prossimo post.

Giuseppe.