lunedì 28 gennaio 2013


“Piove”
disse lei
“un uomo dal cappotto nero
passa per la via”
disse lei.


Magritte però
non la sentiva
più tanto bene


(infatti lei lo disse soltanto
anni dopo la morte di lui)


Così non sentì più
le ultime tre parole
e capì soltanto
“piove un uomo dal cappotto nero”
e lo dipinse. 


E. Fried

martedì 22 gennaio 2013

al mio pomeriggio

Fabio Fazio: il capitalista che vende Gabber

Nell'era dell'informazione, della globalizzazione, del consumismo, la riproduzione della realtà in forme simulate finisce per cancellarne i connotati intrinseci lasciandone soltanto una rappresentazione esteriore, che può, di volta in volta, essere caricata di significati - anche moralmente molto apprezzati nel tempo corrente - che però non possedeva in origine. Fin qua nulla di nuovo: basta ricordarsi un minimo di Benjamin e Baudrillard.

Ieri sera da Fazio si è consumato l'ennesimo ipocrita spettacolino televisivo radical-chic dedicato al grande Giorgio Gaber. Milioni di italiani si sono sintonizzati ad ascoltare e vedere la riproduzione dei suoi tesi e dei suoi contenuti anarchici, e li hanno applauditi felicemente. Ieri Gaber era un santo per tutti: pure per qualche ex-fascista, ci giurerei! Ieri Gaber, soprattutto era un santo per quelli che il 24 e 25 febbraio andranno a votare i partiti della "sinistra". Ieri Gaber era avvertito come un mito dalla borghesia di sinistra.

Mi domando come sia possibile non notare che la televisione capitalista trasmette sempre i messaggi anticapitalisti? Che il sistema democratico faccia spesso parlare chi democratico non è? 

Gaber, il mio Giorgio Gaber, ieri non era in tv: c'erano i suoi testi e qualche caricatura del suo modo di gesticolare o di parlare. C'era quindi la sua riproduzione senza anima (Gabber)
Abbiamo assistito all'ennesima (una della tantissime) conferme che il sistema capitalistico di oggi favorisce e fagocita tutto ciò che nasce in sua opposizione: l'aver ridotto Gaber e De André, tra gli altri, a pezzi di una liturgia culturale che dev'esser universamente accettata dai buoni, contro i cattivi. Ma chi sono i buoni e i cattivi? non si capisce più. E soprattutto questa redutio ad unum della cultura, che ingrassa il sistema (anche nel senso dei consumi culturai) lavorando su fronti non ancora contestati perché non compresi nel loro potenziale demoniaco, è davvero un atto di salvezza? Questa commozione ricercata in tv; questo uso del tono di voce in modo calibrato e spettacolare; questo appropriarsi di Gaber per fondare una falsa opposizione radical che non fa altro che riprodurre i germi di quei mali segnalati da Gaber in tutta la sua opera. Tutto ciò mi sembra ridicolo. E frustrante.

Beh, quello che voglio dire, brevemente, è che sarebbe l'ora di guardarci nel cuore: noi sappiamo. Noi sappiamo che ci stanno prendendo in giro e che ci prendiamo in giro da soli. Sappiamo di non decidere, di non scegliere: lo fanno altri per noi. Sappiamo che questa non è la libertà a cui aspiravamo. Sappiamo di essere drogati da destra e da sinistra.
Sappiamo, ma facciamo finta di nulla. Io voglio sperare che tutti sappiamo, ma che siamo incapaci di cambiare. Perché se non sappiamo, se non abbiamo capito... non vedo molta luce.

Siamo ancora nella società dello spettacolo di cui ci parlava Debord? Forse lo siamo al suo punto massimo? 
La politica è sempre più uno spettacolo, e meno programmi e azioni: lo vediamo da come sono fatte le campagne elettorali e da come si svolgono i dibattiti in tv. Dai "format". La prevalenza dell'immagine sul suo reale.
Questa è una tendenza generalizzata creata dal sistema capitalistico-consumistico per realizzare i propri fini. E, in mezzo a tutto questo, Giorgio Gaber diventa un oggetto di consumo: nella produzione seriale della sua immagine a discapito della sua realtà. Così l'anarchismo diventa un gioco; l'opposizione alla democrazia ed al voto... una parentesi di dolcezza artistica o uno stile; l'odio per il conformismo l'ennesimo pezzo di conformismo. 
Fazio, e quelli come lui, sono i capitalisti della sinistra: quelli di maggior successo; quelli che hanno interiorizzato l'etica dello spettacolo e l'estetica del consumo; quelli che impongono il loro dominio morale attraverso i media e new-media. Quelli che profittano degli altri per sostenersi.

Il mio Gaber - che già di per sé, da quando diventa mio, non è più il suo di se stesso, ma vorrebbe tendere ad esso - sono certo che non sia andato ieri sera da Fazio a fare moda e a risolvere con un po' di emozione programmata e spettacolarizzata un sentimento collettivo di opposizione. Non lo risolve così, offrendo uno sfogo egoistico alle nostre pulsioni malefiche della quotidianità.
Non risolve l'anarchia... nella partecipazione morale democratica e borghese.

Basta.

giovedì 17 gennaio 2013

La giacca [...]

Bisogna andare... fino in fondo,
in fondo a tutto, in fondo a noi,
in fondo agli argini del mondo,
alla paura che mi fai.
Fino in fondo alle tue cosce,
ai miei timori, alle tue angosce.
Fino in fondo alla pianura,
all'orizzonte della città.

In fondo dove... non troveremo
nemmeno un'ombra per riposarci,
in fondo dove... sarà fatica,
sarà sudore l'esser sincero,
in fondo dove tutto è coperto
sotto lo stesso... mantello nero.
...

Bisogna andare sempre avanti,
anche se noi non siamo in tanti,
anzi davvero siam solo in due,
le mani mie, le mani tue,
devono stare sempre vicine,
devono avere gli stessi guanti
e non paura là sul confine
di fare l'ultimo passo in avanti.

Bisogna andare incontro a tutti
quelli che oggi come noi,
voglion rischiare d'esser distrutti
piuttosto di ritrovarsi poi,
in una famiglia senza persone,
come tra i muri di una prigione.
...

Bisogna vincere la morte,
quella che non si fa vedere,
che viene senza far rumore,
che non si fa aprir le porte,
che non fa mai vestir di nero
tutti i parenti all'ospedale,
che non ha mai camere ardenti,
nè cerimonie, nè funerali.

Quella nascosta nella tua noia,
nella mia noia, nelle parole
che ci diciamo senza capire
nemmeno quel che vogliamo dire,
quella che come un regista esperto
ci mette in scena nel suo deserto.

E se domani la mia giacca sarà
la giacca di un disgraziato,
non sarò mai così fregato
come tuo padre.

Claudio Lolli

martedì 15 gennaio 2013

piacere mio.

<<[...] E nei baci, che dolcezza profonda! Ci sono bocche di donne le quali paiono accendere d'amore il respiro che le apre. Le invermigli un sangue ricco più d'una porpora o le geli un pallor d'agonia, le illumini la bontà d'un consenso o le oscuri un'ombra di disdegno, le dischiuda il piacere o le torca la sofferenza, portano sempre in loro un enigma che turba gli uomini intellettuali e li attira e li captiva. Un'assidua discordia tra l'espression delle labbra e quella degli occhi genera il mistero; per che un'anima duplice vi si riveli con diversa bellezza, lieta e triste, gelida e passionata, crudele e misericorde, umile e orgogliosa, ridente e irridente; e l'ambiguità suscita l'inquietudine nello spirito che si compiace delle cose oscure. Due quattrocentisti meditativi, perseguitori infaticabili d'un Ideale raro e superno, psicologi acutissimi a cui si debbon forse le più sottili analisi della fisionomia umana, immersi di continuo nello studio e nella ricerca delle difficoltà più ardue e de' segreti più occulti, il Botticelli e il Vinci, compresero e resero per vario modo nell'arte loro tutta l'indefinibile seduzione di tali bocche.
 
Ne' baci d'Elena era, in verità, per l'amato, l'elisir sublimissimo. Di tutte le mescolanze carnali quella pareva loro la più completa, la più appagante. Credevano, talvolta, che il vivo fiore delle loro anime si disfacesse premuto dalle labbra, spargendo un succo di delizie per ogni vena insino al cuore; e, talvolta, avevano al cuore la sensazione illusoria come d'un frutto molle e roscido che vi si sciogliesse. Tanto era la congiunzion perfetta, che l'una forma sembrava il natural complemento dell'altra. Per prolungare il sorso, contenevano il respiro finché non si sentivan morire d'ambascia, mentre le mani dell'una tremavan su le tempie dell'altro smarritamente. Un bacio li prostrava più d'un amplesso. Distaccati, si guardavano, con gli occhi fluttuanti in una nebbia torbida. Ed ella diceva, con voce un po' roca, senza sorridere:- Moriremo.
Talvolta, riverso, egli chiudeva le palpebre aspettando. Ella, che conosceva quell'artifizio, chinavasi sopra di lui con meditata lentezza, a baciarlo. Non sapeva l'amato dove avrebbe ricevuto quel bacio ch'egli, nella sua volontaria cecità, vagamente presentiva. In quel minuto d'aspettazione e d'incertezza, un'ansia indescrivibile gli agitava tutte le membra, simile nell'intensità al raccapriccio d'un uomo bendato che sia sotto la minaccia d'un suggello di fuoco. Quando infine le labbra lo toccavano, frenava a stento un grido. E la tortura di quel minuto gli piaceva; poiché non di rado la sofferenza fisica nell'amore attrae più della blandizia. Elena anche, per quel singolare spirito imitativo che spinge gli amanti a rendere esattamente una carezza, voleva provare. - Mi sembra - diceva ad occhi chiusi - che tutti i pori della mia pelle sieno come un milione di piccole bocche anelanti alla tua, spasimanti per essere elette, invidiose l'una dell'altra...
Egli allora, per equità, si metteva a coprirla di baci rapidi e fitti, trascorrendo tutto il bel corpo, non lasciando intatto alcun minimo spazio, non allentando la sua opera mai. Ella rideva, felice, sentendosi cingere come d'una veste invisibile; rideva e gemeva, folle, sentendo la furia di lui imperversare; rideva e piangeva, perduta, non potendo più reggere al divorante ardore. Poi, con uno sforzo repentino, faceva prigione il collo di lui fra le sue braccia, l'allacciava con i suoi capelli, lo teneva, tutto palpitante, simile a una preda. Egli, stanco, era contento di cedere e di rimaner così presto in quei vincoli. Guardandolo, ella esclamava: - Come sei giovine! Come sei giovine!
La giovinezza in lui, contro tutte le corruzioni, contro tutte le dispersioni, resisteva, persisteva, a somiglianza d'un metallo inalterabile, d'un aroma indistruttibile. Lo splendor sincero della giovinezza era, appunto, la qualità sua più preziosa. Alla gran fiamma della passione, quanto in lui era più falso, più tristo, più arteficiato, più vano, si consumava come un rogo. Dopo la resoluzion delle forze, prodotta dall'abuso dell'analisi a dall'azion separata di tutte le sfere interiori, egli tornava ora all'unità delle forze, dell'azione, della vita; riconquistava la confidenza e la spontaneità; amava e godeva giovenilmente.
Certi suoi abbandoni parevano d'un fanciullo inconsapevole; certe sue fantasie erano piene di grazia, di freschezza e di ardire.
- Qualche volta - gli diceva Elena - la mia tenerezza per te si fa più delicata di quella d'un amante. Io non so... Diventa quasi materna.
Andrea rideva, perché ella era maggiore appena di tre anni.
- Qualche volta - egli diceva a lei - la comunione del mio spirito col tuo mi par così casta ch'io ti chiamerei sorella, baciandoti le mani.
Queste fallaci purificazioni ed elevazioni del sentimento avvenivano sempre nei languidi intervalli del piacere, quando sul riposo della carne l'anima provava un bisogno vago d'idealità [...]>>.



G. D'Annunzio, Il Piacere

lunedì 14 gennaio 2013

...


Non ho forse avuto una volta una giovinezza bella, eroica, favolosa, da scrivere - troppa grazia! - su fogli d'oro?
Per colpa di quale delitto, di quale errore, mi sono meritato la mia attuale debolezza?
Voi che pretendete che le bestie singhiozzino di dolore, che gli ammalati disperino, che i morti facciano brutti sogni, cercate di raccontare la mia caduta e il mio letargo.
Io non posso spiegarmi meglio del mendicante con i suoi continui Pater e Ave Maria. Io non so più parlare!
Eppure, oggi, credo di aver finito il resoconto del mio inferno.
Era davvero l'inferno; quello antico, di cui il figlio dell'uomo aprì le porte.
Nello stesso deserto, la stessa notte, sempre i miei occhi stanchi si risvegliano alla stella d'argento, sempre, senza che si commuovano i Re della vita, i tre magi, il cuore, l'anima, lo spirito.
Quando andremo, oltre le spiaggie e le montagne, a salutare la nascita del lavoro nuovo, la saggezza nuova, la fuga dei tiranni e dei demoni,
la fine della superstizione, ad adorare, - per primi! - il Natale sulla terra?
Il canto dei cieli, la marcia dei popoli!
Schiavi, non malediciamo la vita!

Arthur Rimbaud,
Una Stagione All'Inferno.

.

Everything’s incredible, if you can skin off the crust of obviousness our habits put on it. Every object and event contains within itself an infinity of depths within depths. Nothing’s in the least like what it seems — or rather, it’s like several million other things at the same time.
Aldous Huxley, Point Counter Point

silenzio.

Venuto al mondo, il film: brevissime impressioni

Il mio approccio al film non è stato, a dire la verità, tra i più asettici e seri che si potessero avere: non ho letto il libro e non mi piace la Mazzantini. Ma sono ugualmente convinto che la prima parte scorra in modo troppo confuso e banale: persino i contenuti poetici o e morali assumono le caratteristiche di una caricatura o di una semplificazione esagerata, e sono difficilmente apprezzabili. Sembrano buttati lì, alla rinfusa, senza una carica emozionale convincente. Alcune scene mi appaiono poco aderenti ad un disegno generale; altre troppo, diventando insignificanti.

La storia è quella del viaggio di Gemma e Pietro, apparentemente figlio di Gemma, in quella Bosnia che circa trent'anni prima aveva visto la protagonista innamorarsi del fotografo americano Diego. In mezzo al viaggio con Pietro e con l'amico Gojko (che aveva invitato Gemma a tornare col pretesto di una mostra dell'ex marito fotografo), viene ripercorsa tutta la sua storia dall'84 ai primi anni '90, con lo scoppio della vergognosa guerra di vocazione internazionalista tra Bosnia e Serbia, miseramente celata dalle sole questioni nazionalistiche. I contenuti della guerra, per tutta la durata del film - giustamente, visto che il focus della vicenda e della riflessione è ben altro - non emergeranno mai.

Per tutta la prima metà del film viene effettuata una ricognizione dei fatti che riguardano: l'incontro tra Gemma e Gojko; l'innamoramento con Diego (poco convincente, banale: un'amore per nulla intenso o poetico); il ritorno in Italia di Gemma che sposa un altro uomo, con la contrarietà evidente del padre (il quale, non si capisce come mai, simpatizza da subito in modo insolito con Diego, che  chiama continuamente a Roma per sentire la ragazza); la separazione di Gemma e l'inizio della vita di coppia (matrimonio?) con Diego che nel frattempo era arrivato a Roma con l'assistenza del padre di lei.

Ma il problema, adesso, è che lei, Gemma, non può avere un figlio, perché sterile al 97 percento; e assieme non potranno neanche adottarlo, visti i precedenti con la droga di Diego. Una convivenza sempre più difficile e poi il ritorno in Bosnia, dove nel frattempo è scoppiata la guerra. Lì l'idea di trovare una donna che prestasse il grembo per il figlio tanto voluto da entrambi i protagonisti, favorita da Gojko. Questa donna sarà Aska, una giovane musicista ribelle e libertina serbo-croata, della quale, dagli sguardi lanciati durante un concerto, si comprende che Diego si sia anche un po' invaghito. L'atto potrebbe essersi o consumato o meno: non si capisce. Ma un Diego visibilmente sconvolto torna con Gemma in Italia e comincia a mostrare insofferenze e turbamenti: cosicché, di li a poco, egli ripartirà per la Bosnia.
Mentre resta mal calibrato il viaggio di Pietro, con la pessima lite (dal punto di vista narrativo e cinematografico) con quella che era considerata sua madre, ecco che seconda metà del film si fa via via più interessante, fino ad arrivare al momento nel quale, al cinema comunale di Patti, cade un silenzio serioso, dovuto ai temi affrontati. Silenzio che si struttura dalle prime esplosioni dei bombardamenti su Sarajevo alle scosse emozionali (prevedibili) appena viene affrontato - con uno dei flash back finali - uno dei temi portanti del film e del libro: la violenza sessuale spinta perpetrata in guerra su una donna che a seguito rimarrà incinta. Quella donna è Aska, la quale si credava attendesse un figlio da Diego e che avesse fatto effettivamente da "cicogna" alla sterilità di Gemma. Solo verso la fine si scoprirà, tragicamente, che non è così.

Ed ecco che allora Pietro, il figlio acquistato da Gemma credendo che in lui scorresse lo stesso sangue di Diego, diventa piuttosto il figlio innocente di un'umanità da odiare, da disdegnare. La guerra, sullo sfondo, diventa metafora dell'emersione di tutti i mali che crescono nelle vene della società umana; nei fondali dell'umanità. La forza emozionale del contenuto, unito al disvelamento di un pezzo di storia fin lì rimasto ben nascosto, permette al film di essere finalmente apprezzato per l'intensità abilmente orchestrata dalle immagini. Restano tuttavia poco brillanti le parentesi metaforiche, le composizioni poetiche e le conclusioni morali della vicenda. Le "parole più importanti", ricercate negli ultimi dialoghi prima del ritorno in Italia di Gemma e Pietro, comunicano ben poco e sembrano l'ennesima forzatura. La stessa morte di Diego vista - sempre tramite flash back - solo cinque minuti prima, non è affatto struggente: forse perché collocata nel momento sbagliato del racconto; forse perché preparata, cinematograficamente, in modo insufficiente.
Tutto sommato un film apprezzabile perché affronta temi interessanti antropologicamente e perché, nella parte cruciale, con meno parole e più immagini, rende suggestiva la visione.
Non è un capolavoro, ma può piacere ad altri molto più di quanto sia piaciuto a me; e l'importante, d'altronde, è che non tutte le cose piacciano a tutti nello stesso modo, ma che emozioni diverse, ed in modo sempre diverso, possano venire a galla.

venerdì 11 gennaio 2013

bozza


Bozza di amore contro consumo



Divintò difficili cantari cu l'amuri,
di li casi e dilli villi oggi scurdati,
dilla petra dura a menzu 'o mari,
dilli belli stradi svacantati.


Difficili, quanno u paisi chi 'nta facci la petra talìa
stu amuri scorda e non poti dari;
quannu u mali d'u munnu dintr'all'occhi ci passìa;
quannu i so figghi scappunu p'u duluri.


E stu dululuri chi c'entra? D'unni veni?
U duluri d'un paiseddu chi bacia u mari e non u canusci;
non sapiri teniri 'nte mani chiddu chi la storia teni.
'Nchucciati arreri 'o scogghiu, la stissa storia ni tradisci.


E' l'aviri pirdutu, stu nostru munnu,
a 'ncodda chi nni taccava c'a riina
l'amuri chi nni 'gnunceva 'nto funnu
a casa chi tutti ni 'vvicina.



Macari a Patti si consumunu li viti
d'i figghi e d'i niputi dill'ommu
chi canuscìu la cannila e l'antichi riti:
lu scuro quanno era scuro, la luci quanno era jornu.


Macari a Patti 'rriva u bisognu
di non essiri chiù 'na cosa dura,
di non scriviri appresso, ma canciari fogghiu,
di tramurati facci ogni jornu e ura.


E ni scantammu, macari a Patti,
di non sapiri ripigghiari 'u chatu,
di non canusciri ciuri belli e aranci fatti,
di camminari comu n'u sciancatu.



Sciancati semmu; e quasi tutti pi cammora:
picchì i turmenti chi iemmu cantannu
tinciunu l'occhi e u cori non sulu di fora;
puru si tutti pari ancora caminammu.


U mali non è quannu canciunu li cosi
ma quannu l'amuri chiù non si bivìra;
quannu, prima di nasciri, 'nto cori siccunu li rosi;
quannu nenti si sarba e spasciari ni ricria.


Pàrtiri ni tocca pì putiri campari:
curriri a circari a felicità arreri e avanti,
travagghiu unni si pò travagghiari
e i bisogni novi sempri chiù 'mpurtanti.



Ma sta felicità, spissu mi dumannu,
è fatta cu li mani nostri tutti 'nzemi,
oppuri ièni u giocu unni tutti suspirammu
p' un sistema chi non ni cunveni?


Non lu sapemmu; e nun putemmu stari fermi.
A vita divintò un sulu mumentu chinu di tuttu
unni diciunu chi macari la petra faci i vermi;
non è jornu e non è notti, e u purtuni è sempri ruttu.


Ma si tutti consumunu la nova vita,
l'amuri fossi scappa, ma non si pò consumari:
ca sempre c'è u bisugnu d' 'a catina, dilla zita;
di 'mpuiari u cori alla petra ammenzu 'o mari.



'Mpuiatilu, stu cori, supra d'u ricordu d' 'a pignata e dill'orti;
supra d'i viscuvi, d'i mercanti e supra d'a regina;
supra d' i guerri, d'i paci e supra d'i nostri morti:
'mbrazzativi, e miscativi cu sta acqua e sta farina.


Dintra la storia chi non scappa l'amuri truviriti:
pò nasciri sulu firmannusi a capiri e facennu sacrifici;
costruennu, stancannusi 'nzemi, e 'nzemi avennu siti;
non pinsannu u chiù cuntentu cu nun pensa li radici.


Tutti i ciuri hannu radici, macari pigghiati du mali.
Ma si sta città, tra centu anni, sarà dilli ruvi a megghiu spina
lu scogghiu, la terra e li stradi sarannu allura dill'animali;
mentri l'ommini, consumati, tramutirannu 'n purbiri fina fina.


E si la forma nova d'u munnu ieni purbiri a svulari 'nto ventu
jo mi tegnu taccantu strittu cu la terra:
mi ricurdu unni misi li primi pedi e curria cuntentu,
sciancatu pì l'amuri; e non pì stu munnu, e non pì sta guerra.

Sebastian Recupero


Il dolore è pensare - adesso che siamo ancora a cavallo tra due fasi storiche (quella dei nostri nonni e quella dei nostri nipoti) - che nonostante non ci siano più le comunità tradionali - ed è giustissimo non farne un dramma, ci mancherebbe altro davvero! -, siano labili pure i legami profondi che ci dovrebbero legare sentimentalmente con i luoghi della nostra memoria. Triste è che la forza dei sentimenti, custoditi nella memoria stassa, sia altrettanto labile. E triste... che i rapporti umani diventino di tipo consumistico.
Ma è questo un pensiero ancora troppo moderno; e, giustamente, si estinguerà.

.

Trovo Mariangela bellissima, in questo bellissimo film.
Con la sorella... in modo più familiare. Un saluto.

giovedì 10 gennaio 2013

E' sporca la città.

I brividi, certe canzoni, possono offrirli solo a chi le ha vissute; a chi ci è cresciuto assieme; a chi l'amore lo conosce; a chi non è un professionista; a chi non ha la cura.
Mi sento sporco anche io, che, tutto sommato, con i sentimenti degli altri non gioco. Mi sento sporco perché basta esserci. Perché sono vivo.

mercoledì 9 gennaio 2013

tra eros e thanatos

Egon Schiele, Madre con i due bambini, visto un anno fa a Vienna.

Ora il tempo ci usura e ci stritola.
[E la Giuditta di Gustav non la perdono].

ritagli di pensiero.

Pier Paolo Pasolini, 
frammento tratto dall'intervento che avrebbe dovuto fare al congresso del Partito radicale nel novembre '75.

Paragrafo secondo
 
Disobbedendo alla distorta volontà degli storici e dei politici di mestiere, oltre che a quella delle femministe romane - volontà che mi vorrebbe confinato in Elicona esattamente come i mafiosi a Ustica - ho partecipato una sera di questa estate a un dibattito politico in una città del Nord. Come sempre poi succede, un gruppo di giovani ha voluto continuare il dibattito anche per strada, nella serata calda e piena di canti. Tra questi giovani c'era un greco. Che era, appunto, uno di quegli estremisti marxisti "simpatici" di cui parlavo. 
Sul suo fondo di piena simpatia, si innestavano però manifestamente tutti i più vistosi difetti della retorica e anche della sottocultura estremistica. Era un "adolescente" un po' laido nel vestire; magari anche addirittura un po' scugnizzo: ma, nel tempo stesso, aveva una barba di vero e proprio pensatore, qualcosa tra Menippo e Aramis; ma i capelli , lunghi fino alle spalle, correggevano l'eventuale funzione gestuale e magniloquente della barba, con qualcosa di esotico e irrazionale: un'allusione alla filosofia braminica, all'ingenua alterigia dei gurumparampara. 
Il giovane greco viveva questa sua retorica nella più completa assenza di autocritica: non sapeva di averli, questi suoi segni così vistosi, e in questo era adorabile esattamente come coloro che non sanno di avere diritti... 
Tra i suoi difetti vissuti così candidamente, il più grave era certamente la vocazione a diffondere tra la gente ("un po' alla volta", diceva: per lui la vita era una cosa lunga, quasi senza fine) la coscienza dei propri diritti e la volontà di lottare per essi. 
Ebbene; ecco l'enormità, come l'ho capita in quello studente greco, incarnata nella sua persona inconsapevole. 
Attraverso il marxismo, l'apostolato dei giovani estremisti di estrazione borghese - l'apostolato in favore della coscienza dei diritti e della volontà di realizzarli - altro non è che la rabbia inconscia del borghese povero contro il borghese ricco, del borghese giovane contro il borghese vecchio, del borghese impotente contro il borghese potente, del borghese piccolo contro il borghese grande. 
E' un'inconscia guerra civile - mascherata da lotta di classe - dentro l'inferno della coscienza borghese. (Si ricordi bene: sto parlando di estremisti, non di comunisti). Le persone adorabili che non sanno di avere diritti, oppure le persone adorabili che lo sanno ma ci rinunciano - in questa guerra civile mascherata - rivestono una ben nota e antica funzione: quella di essere carne da macello. 
Con inconscia ipocrisia, essi sono utilizzati, in primo luogo, come soggetti di un transfert che libera la coscienza dal peso dell'invidia e del rancore economico; e, in secondo luogo, sono lanciati dai borghesi giovani, poveri, incerti e fanatici, come un esercito di paria "puri", in una lotta inconsapevolmente impura, appunto contro i borghesi vecchi, ricchi, certi e fascisti.
Intendiamoci: lo studente greco che qui ho preso a simbolo era a tutti gli effetti (salvo rispetto a una feroce verità) un "puro" anche lui, come i poveri. E questa "purezza" ad altro non era dovuta che al "radicalismo" che era in lui.

lunedì 7 gennaio 2013

Le battaglie sociali ed io


A lungo, nella mia vita, ho avuto molte cose da dire, molte cose da fare. Ho fatto e detto molte cose. Poi, di colpo, mi son fermato. A dire il vero non è la prima vota che mi accade: questo senso di vuoto, di inutilità, di spaesamento, questa condizione prenichilista, tutto questo mi ha già accompagnato in tante transizioni della mia esistenza. Ma la passione politica fino a ieri era sempre rimasta ancorata dentro di me. Poi, a ventiquattro anni, ti svegli dal tuo stato di stordimento sentimentale e non c'è più nemmeno quella. Perché? 

Due direttrici diverse che alla fine si congiungono. 
Da un lato l'impossibilità, avvertita in modo sempre più incalzante, di poter cambiare l'organizzazione sociale e culturale con un'azione politica tanto di tipo riformistico-istituzionale, quanto riformistico-movimentista. Di più... la difficoltà di approntare una rivoluzione in senso tradizionale, otto-novecentesco.
Impossibilità perché, per via istituzionale, non si può delegittimare il corso delle politiche, del diritto, della organizzazione internazionale con gli strumenti offerti da questo stesso sistema; per via movimentistica, perché la lotta sulle contingenze è prevista, accettata ed addirittura istituzionalizzata dal sistema e non si riesce a lanciare un'azione globale di cambiamento. Per quanto certi risultati (sempre contingenti) appaiono come delle vittorie, essi sono fagocitati e digeriti dal sistema in men che non si dica.
E poi... la rivoluzione con l'affermazione del socialismo a livello continentale, e via via globale, appare forse un po' troppo ambiziosa (anche se resta la soluzione che moralmente condivido di più) nel mondo totalmente trasformato dalla globalizzazione e dallo sviluppo della tecnologia. 

L'altra direttrice del mio smarrimento, attraversa vie personali; quindi umane, antropiche. 
"Paradossalmente il sistema capitalistico è quello che si avvicina di più alla realtà dei rapporti di forza tra gli uomini ed alla loro natura" mi disse un mio amico l'altra sera ad un concerto. Ora, lungi dal voler in queste sede contestare con mille ricognizioni teoriche la fondatezza di questa ipotesi, personalmente mi devo dire contrario. Ma non posso del tutto ignorare che, se la missione della modernità, fondata sulla nascita del capitalismo nel 400, era [ed è] il trionfo dell'uomo sulla natura, cioè un più marcato antropocentrismo, la ricerca di potenza e il tentativo di affermazione ideologica (o religiosa) in essa contenuti mi sembrano mutuati dal micro (o macro?) sistema delle relazioni umane. Dove voglio andare a parare? Al fatto che l'esclusione sociale, quella vera, non avviene solo per motivi economici, politici, ideologici, o religiosi; piuttosto essa ha a che fare con la propria competenza a trovare spazio all'interno di un gruppo sociale. Cioè, voglio dire, mi pare chiaro che la concorrenza di cui si parla quando ci occupiamo di economia, impresa, commercio tout court, sia stata carpita dalle caratteristiche intrinseche dell'umanità e trasformata in modello di sviluppo politico totale. La competizione a livello umano e sociale, la tensione ad affermarsi e ad escludere, non mi pare sia un'invenzione figlia di retaggi di un primo e superato darwinismo quanto, e piuttosto, una realtà fattuale riscontrabile oggi esattamente come migliaia di anni fa. 
Un altro mio amico, un movimentista espatriato in un paese molto movimentista, libertario e gioioso: " Quegli sfigati di lotta comunista che non capiscono un cazzo del marxismo, me li ricordo lì con il professorino che ti volevano inculcare delle idee e basta. Il professorino che ti diceva che drogarsi è sbagliato e poi aveva in bella mostra il pacchetto di Camel gialle, secondo me doveva essere un frustrato". Bene, io credo che su certe contraddizioni degli uomini e dei gruppi politici, come quelle emerse in questo caso [anche se ognuno di noi dovrebbe badare con lo stesso fervore alle proprie], dobbiamo essere tutti d'accordo con il mio amico; anche sul fatto che una visione ortodossa del maxismo-leninismo sia troppo statica e religiosa, si può convenire [ ma su questo mi permetto di non avere le idee chiare]; ma... quello che ho pensato e detto subito è stato: "sfigati?" "frustrati'?" - "ma perché?".
Perché questo linguaggio insomma: da dove proviene? E', evidentemente, il retaggio di qualcosa di incancellabile. Di profondo.
Mi ricordo di quando cominciai a frequentare per le prime volte gli ambienti politici della sinistra messinese. Io, al tempo, mi definivo semplicemente "socialista". Ero stato anche inscritto al Partito che si chiama "socialista". Invece lì, tutti erano, o si dichiarano a vario titolo, "comunisti". Ci può stare che la parola con la quale io mi identifico evochi qualcosa di disgustoso, di ambiguo o solo di spurio, di incompleto. Ci può anche stare che io sia in torto nella comprensione di una visione ideale , ideologica o solamente filosofica. Ero figlio di un Dio minore, ma io stavo lì: con i "comunisti", quasi tutti i giorni. Avevo fiducia, li rispettavo, avevo voglia di ascoltarli e anche di disciplinarmi alla vita del partito, come fosse una famiglia. Eppure restavo "il socialista", ed ero guardato con gli occhi del dubbio. Solo con molta pazienza riuscii a integrarmi e farmi rispettare (un minimo) nella mia umanità semplice ed ingenua. 
Poi però la realtà del partito, tra congressi ed elezioni, si fece più stringente: le logiche interne - di cui non vi racconterò, ma che sono quelle tipiche dell'oligarchia di partito (per dirla alla Michels) - mi fecero successivamente allontanare in modo definitivo da quello che sembrava poter essere un modo nuovo di fare la politica ed invece si mostrò sempre più vecchio. 
Mi avvicinai al movimento universitario, per un brevissimo periodo. Fini una sera di occupazione - occupazione alla quale, in realtà, per dovere di cronaca e per rispetto di quelli che l'hanno portata avanti, io non partecipai mai attivamente - alla frase pronunciata da un occupante dopo una mia risposta negativa: "questi giovani rivoluzionari di oggi [credo di avere la stessa età del ragazzo] non hanno più manco una cartina lunga. Ecco perché le cose vanno male". Ovviamente non sono così imbecille da dedurre da questa cosa un sentimento generale o lo spirito di un'azione politica; ma certamente le parole hanno un peso. E soprattutto hanno un motivo. 
Per una serie di occorrenze e sentimenti contrastati, mi accorsi che quella non era la rivoluzione che volevo fare io.
Così, mentre tutto il mondo viveva la sua crisi economica e la sua crisi strutturale, mentre i rapporti economici e sociali, in Italia e nel mondo, rimanevano gli stessi, io mi ero perso. 
L'ultima prova attiva, in quel periodo, fu la mia partecipazione alle elezioni amministrative di Patti con un movimento, che però tutti sanno essere stata una partecipazione troppo idealistica e poco concreta. In effetti non credevo più nel potere costituzionale-istituzionale, e predicavo un cambiamento che non poteva essere contenuto all'interno delle gabbie elettorali. Fu un fallimento per tanti, ma soprattutto un mio fallimento personale. Poco durò l'effetto della "vittoria" referendaria per l'acqua pubblica: azione che rivendico ma che, oggi, forse non rifarei, alla luce della presunzione della mia visione strutturalista e del mio buio interiore. 
La crisi. La crisi, tra il 2011 e il 2012, era entrata dentro di me. E' la mia crisi. Ed è politica? 
No.
E' una crisi più profonda, che ho realizzato a cominciare dal marzo del 2012: l'avversione totale verso qualsiasi forma di antropocentrismo come incipit, e la sfuducia generale nella natura umana come fine. 
Un uomo in crisi, che, come me, non vuole vergognarsi di non avere momentaneamente certezze, finisce abbandonato a se stesso. 
Corollari? Se crolla la fiducia nel cambiamento, nella possibilità di sovversione rispetto a qualcosa che ci opprime, si comincia a fluttuare senza corrispondenze in una realtà già di per sé liquida; perdi la tua capacità di tenere le redini di tutti gli elementi della vita. Così è stato per me. 
Instabilità personali, economiche, e affettive non riuscivano più ad essere ancorate alle mie poche certezze, perché nel frattempo esse avevano smesso di esistere. 
E così ho passato, e passo ancora, uno dei periodi più delicati della mia vita. 
Sono solo, si. Per colpa o per destino, oggi sono solo.
E non mi va di stare al passo, di tenere testa alla velocità della moda, del gusto, del pensiero, dei vezzi culturali. Non mi va più di accettare un ruolo da protagonista per una realtà strutturalmente ipocrita: tanto nella politica, quanto nella semplice vita relazionale. 
Non accetto il perbenismo e la razionalizzazione della politica di partito, né l'eccessivo afflato artistico e poetico delle rivoluzioni di strada. Quando è moda e moda, mi verrebbe da pesare mutuando Gaber. E Pasolini.

E non accetto queste cose perché rifiuto di lavorare per una "rivoluzione" o una "riforma" della società che continui a perpetrare l'esclusione dei soggetti più deboli. Non accetto la legge del più forte, dal livello micro.

I deboli non sono i poveri, i migranti, le vittime di violenza, i torturati per motivi politci o religiosi, gli omosessuali, i palestinesi, i siriani etc..; ma sono quelli che non hanno merito, che non sanno competere, che non hanno la competenza a competere, che non si adeguano (e non per arte), che sono ingenui. Questi sono i soggetti deboli, secondo me. Ed essi esistono al di là di tutte queste categorizzazioni politiche che si tendono a creare per fini propagandistici e per ridare fiato alle nostre coscienze. Se non fosse "vergognoso" ammetterlo, in una società che anche tra i suoi prodi rivoluzionari gioca a chi ce l'ha più lungo, vi direi che io mi sento un debole. E alla fine ve l'ho detto.

Vivo e vivrò di tutto quello che mi piace, troverò ancora una volta, e come tutti,  nuove strade. Ma di certo vorrei evitare di venirvi ad insegnare la strada per una società più giusta e per un modello politico inclusivo e finalmente felice. Perché per me tutto questo non ha più senso. Il male che, in fondo, cerchiamo di combattere è dentro di noi: ma non in qualità di individui o come prodotti della società; piuttosto in quanto umani. Allora, dato che non possiamo che essere umani, quel male non è un male. E' solo qualcosa che si risolve per caso, di volta in volta e senza nessuna rivoluzione. 
Io non mi sento in grado, ad oggi, di partecipare ad alcuna rivoluzione, né azione culturale. E questo perché se si tratta solo di cambiare la forma, di garantire per un po' nuovi diritti o anche di garantire a tutti la dignità politica, in senso economico e sociale, non mi interessa. O meglio... non mi basta.

Semplicemente, in questo momento, posso lottare contro me stesso per riformarmi e tenermi meno human dei miei ipotetici riferimenti culturali; per imparare a costruire senza ostentare; e per non vergognarmi di essere debole.