venerdì 13 dicembre 2013

Lettera agli uomini sotto le divise

Agli amici della Polizia di Stato, ai Carabinieri, alle forze dell'ordine tutte.


Scrivo, perché è la prima cosa utile che posso fare. Scrivo perché voglio mettere a posto tutti i pensieri, ordinatamente; ed in modo ordinato comunicare, fuori dal rumore assordante della piazza che si agita, giustamente. Inevitabilmente.
Scrivo, con lo stesso tono che si usa per riconciliare i sentimenti tra amici o tra amanti.
Scrivo a voi, donne e uomini al servizio di questo nostro Stato italiano, perché è il momento della verità, della schiettezza, della comprensione condivisa e soprattutto, perché è il momento della riconciliazione.

Questo nostro tempo di trasformazioni e di frammentazione è il tempo in cui una fase storica, quindi economica e poi politica, volge al termine. E come sempre nella storia, nell'approssimarsi della fine di un modello organizzativo, di un periodo tutto sommato stabile, regna inevitabilmente la paura e il disorientamento. Non voglio farla lunga, ma mi sia concesso spiegare cosa sta succedendo, secondo me, con i pochi strumenti che possiedo.

C'è stato un tempo in cui, dopo le macerie della guerra, dopo le privazioni materiali ed immateriali dell'inizio del secolo scorso, e dopo il grande abbaglio fascista, la comunità nazionale è stata rifondata politicamente attraverso le istituzioni e la Costituzione repubblicana. E' stato l'inevitabile processo di riassestamento dopo un periodo da dimenticare, favorito dai nuovi equilibri internazionali, dall'azione, dal finanziamento e dalla tutela degli americani. E' stato il risveglio di tutte le attività produttive e culturali di una nazione che non è mai stata veramente tale. Ma in tutta questa esplosione di vitalità, economia e anche di duro scontro politico, si andava cementando - purtroppo nascondendo malamente, come la polvere sotto al tappeto, tutte le contraddizioni sociali - la cultura piccolo borghese, e la cultura consumistica, come denunciava sempre Pier Paolo Pasolini.
Attraverso l'idea di benessere, quindi di capacità di consumo degli individui e delle famiglie, s'è fatta l'Italia. Abbiamo cominciato a credere, anche noi che non eravamo pronti, che fosse più importante essere ricompensati in denaro, con aumenti dei salari e degli stipendi, di quello che ci veniva tolto umanamente. E ci veniva tolta la nostra vera libertà di essere, di scegliere cosa fare della vita, del nostro tempo. Già, il tempo. Il tempo diventava velocemente una condizione legata alla nostra attività di consumo. Ed il consumo diventava la forma della società e della socialità.

Abbiamo pensato a lungo - e molti di noi lo pensano ancora oggi - di potere esser felici così. Ma guardiamole quelle nostre ipotetiche felicità: a rincorrere il possesso di qualcosa, spesso per poterlo vantare; a cercare una sicurezza pressoché assoluta in un posto di lavoro fisso e poi a sentirci, sicuramente, come gli ingranaggi di una macchina, anonimi; o ancora a costruirci una casa piena di oggetti inutili e molto spesso vuota di grandi passioni, di grande ambizione, di vita; a cominciare a pensare in termini di "tempo libero" e "tempo occupato", come se fossimo degli automi; per di più a spendere spesso il nostro tempo libero in attività votate a consumare: dal lunedì al venerdì/sabato lavoro, ogni sera televisione (poi sempre di più facebook), venerdì cinema, sabato la pizza fuori con la famiglia e qualche amico, domenica le partite in tv e poi, magari, un giro al centro commerciale. Tutte le settimane, per anni e anni. Felicità, morte insomma.
Quell'illusione della stabilità consumistica e del benessere hanno avuto un costo molto elevato:la complessità sociale e le difficoltà dei popoli d'Italia vennero tenute a bada da una politica che aveva imboccato una strada oramai senza uscita (quella dell'americanizzazione, dell'europeismo economico), attraverso la creazione di debito pubblico, la corruzione, l'assistenzialismo.
Ma non è solo questo il problema. C'è qualcosa di più.

Il mondo si trasforma molto più velocemente che in passato, la tecnologia ha consentito una sempre più forte globalizzazione. Non esiste più lo Stato, se non sulla carta. Non ha più senso l'idea di nazione. Il mondo tende ad essere una rete fitta di relazioni e comunità immateriali.
Cioè, voglio dire che se vi fermate un attimo a riflettere, noterete che i confini non esistono più e che il fatto di abitare assieme in un determinato luogo non porta automaticamente alla creazione di una comunità. Anzi, guardiamo noi, il nostro essere, la nostra presenza materiale e "spirituale" nel paese in cui abitiamo. Io guardo al mio paese, Patti, e mi domando: cosa vuol dire essere pattesi oggi? Cosa mi unisce davvero e necessariamente con gli altri abitanti del mio paese? È una risposta dura la mia: significa solo l'evocazione di una presunta storia gloriosa e la retorica; o, in ultima analisi, lo status giuridico di residenza in un comune denominato "Patti".
I miei legami veri, i miei interessi, le mie aspirazioni, sono altrove. Probabilmente, nel 2013, potremmo sentirci più in sintonia con un cittadino cileno, o islandese. Ed è normale, direi... naturale.
Cambia tutto: il senso dell'esistenza, il modo di guardare al mondo, il modo in cui intendere le relazioni sociali, l'idea di lavoro, l'idea di politica. Crollano le gabbie mentali della religione (ed era ora), perde di significato (anche qui: finalmente!) l'istituto matrimoniale - così da evitare di fare una cazzata giusto perché c'è una forma che qualcuno ci ha imposto di seguire -, cambiano le forme dell'organizzazione sociale, cambiano le abitudini, cambiano i costumi.

È importante spiegare che tutte le trasformazioni in atto sono mosse dall'economia, in un circolo vizioso dove abbiamo bisogno di qualcosa di sempre nuovo perché il mercato ci offre qualcosa di sempre nuovo. Un altro mercato, poi, ci ha offerto da tempo l'opportunità di avere quel che desideriamo, anche se non è possibile averlo: è il mercato finanziario. Oggi questo ha raggiunto dimensioni così imponenti da aver creato praticamente un mondo parallelo: un mondo di carta.
Quello che bisogna capire è che la politica oggi non risiede più negli Stati - che come ho già detto, sono svuotati del loro significato storico - ma nei mercati, ed in particolare in quello finanziario. Il Parlamento e i governi, praticamente, non decidono più nulla perché sono vincolati dalle leggi economiche, e non tanto dall'Unione Europea che, seppur dotata dell'ultimo brandello di potere politico tradizionale, è solo un'esecutrice di quelle leggi, e ne comanda l'attuazione in tutti gli Stati.

In tutto questo cambiare, in mezzo alle trasformazioni di cui spesso non capiamo bene il significato, non cambiano (perché è effettivamente difficile, farle cambiare) le istituzioni, né le forme della politica; non cambiano, e noi continuiamo a votare pensando che si possa fare qualcosa di rivoluzionario da dentro le istituzioni, e al massimo ce la prendiamo con i politici corrotti. Non è così: non si può rivoluzionare nulla dall'interno, e non è vero che il problema siano gli stipendi e gli sprechi della politica. Sono piccolezze, credetemi; cose che ci fanno chiacchierare e incazzare come per una partita di calcio. Ed è odioso pensare che ci interessa di più difendere un inno e una bandiera nelle piazze, invece che riprenderci la nostra dignità, la nostra umanità.
Ma, amici delle forze dell'ordine, non è nemmeno vero che è solo difendendo lo Stato si difende la democrazia. Io, sinceramente, non sono un appassionato di democrazia (che è l'utopia più forte di ogni tempo, quindi costitutivamente irrealizzabile) ma devo affermare che sento di avere la certezza che nessuno può imporre un sistema autoritario "giusto"; perché è il concetto stesso di giustizia ad essere variabile; perché forse è giusto tenere in considerazione la diversità di ciascuno. E mi piacerebbe parlarvi, ma lo farò in altra sede, della mia idea di democrazia comunitaria.
Ad ogni modo qualsiasi forma di democrazia oggi è messa in pericolo dal permanere dello Stato, notabile dei mercati, e di una Unione Europea promotrice di politiche di austerity per la stabilizzazione di un sistema economico che vede noi tutti, ancora una volta, umiliati e offesi. E lo siamo tutti quanti: anche se voi agenti di polizia o carabinieri o guardie di finanza, o militari insieme ad altre categorie di lavoratori dipendenti, riuscite, con uno stipendio misero, a campare e a tenervi all'asciutto ancora un po', mi chiedo come vivrete tra alle macerie sociali, che senso avrà la vostra vita in mezzo alla disperazione e alla morte; alla disperazione e alla morte che saranno servite per salvare uno Stato inutile e allo stesso tempo un'economia alienante, che rincoglionisce noi di falsi miti e arricchisce sempre i più furbi.

Uso il "voi" solo per distinguerci rispetto i nostri attuali ruoli sociali, attribuitici dalla società capitalistica. E' l'economia che attraverso la politica ci divide; ci fa dimenticare che in fondo siamo tutti uguali, che viviamo gli stessi malesseri, abbiamo gli stessi istinti e le stesse passioni. Che siamo tutti quanti esseri umani; e tutti tragicamente sfruttati. Invece succede che quando ci troviamo in piazza ci insultiamo e ce le diamo di santa ragione. A questo proposito vorrei segnalare che gli stronzi ci sono nei movimenti e nelle forze dell'ordine; ci sono nel mondo, in generale. Ma la gran parte di noi, che non vuole essere stronza, deve trovare il coraggio di parlarsi e di superare gli abusi: quelli di potere dovuti alla divisa e all'idea di ordine autoritario; quelli di acculturamento e spocchiosità dovuti ad un percorso di vita borghesemente universitario o indipendente e senza responsabilità.
Vorrei dire che purtroppo gli scontri - ad esempio sulla Tav, o nelle Università - ce li dovremo sopportare ancora: perché la Polizia fa la polizia e i ribelli devono essere ribelli e non devono affatto andarci piano. Eppure... se si guardasse a quelle manifestazioni nel contesto di quello che ho descritto poco fa, se si aggiungesse che è proprio il rifiuto di questa società che ci spinge ad attuare quelle proteste (contro la Tav significa: basta speculazioni, basta alta velocità e ricominciamo ad andare con calma, basta grandi opere che servono solo al sistema dei ricchi, basta sfasciare l'ambiente col cemento) si potrebbe dialogare, e forse togliersi i caschi per sempre - e in tanti.
Quindi voglio usare ancora un "noi" che comprende anche gli amici sfruttati e umiliati delle forze dell'ordine. E voglio dire che questo ordine, che le istituzioni politiche vogliono continuare a difendere, serve a tutelare gli interessi di certe lobby, di certi milionari, di certi privilegiati che oltre ad essere diventati ricchi spesso con modalità abiette, lo sono pure troppo. E' questo l'ordine dove noi poveri disgraziati annaspiamo e tiriamo a campare. In questo ordine siamo divisi, e non ha senso. 
Tutti assieme, innanzitutto aprendo un dialogo e prendendo coscienza, possiamo fare qualcosa di importante: testimoniare e imporre il nostro dissenso. Uniti si fa la differenza e nessuno resta solo.





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